Abbastanza stanca da pensare alla rivoluzione
“Magari «rivoluzione» è una parola troppo ambiziosa di questi tempi, meglio parlare di cambiamento su vasta scala.” Ferdinando Cotugno
Qualche giorno fa doveva essere una qualche giornata mondiale di qualcosa, penso la salute mentale, e in un paio di stories di amiche su Instagram mi è passata davanti una card con una frase impossibile da ignorare:
Quella sulla stanchezza è la conversazione più importante del presente. Se arriverà un futuro diverso, arriverà da lì. Continuiamo a parlarne.
Era un post di Marie Claire Italia, un carosello che nella caption conteneva una riflessione più ampia e il nome dell’autore, Ferdinando Cotugno; così sono risalita all’articolo originale sul burnout collettivo, un articolo di febbraio 2023 che mi sembra essere ogni giorno più attuale.
Uscirne individualmente [dal burnout, nota mia] è un privilegio, uscirne collettivamente è politica. Le rinunce di alto profilo degli ultimi giorni [Cotugno qui si riferisce a Arden e Sturgeon], così come La Grande Dimissione o il quiet quitting post pandemici, sono state quelle che il sociologo Ulrich Beck definiva «soluzioni individuali a un problema strutturale». Ti paghi l'uscita di prigione col tuo biglietto fortunato: una casa di proprietà, un reddito alternativo, un patrimonio ereditato, quel che è.
Ma qui il vero senso di questa storia è mettere in discussione tutto il Monopoly della stanchezza, cambiare modo di giocare, regole, meccanismo e struttura.
[…] C'è una connessione tra tutte le nostre stanchezze individuali, e questo è un fatto politico: hanno le stesse cause, le stesse ragioni e gli stessi esiti. Uno dei meccanismi che hanno reso il capitalismo così efficiente è stato lo scarico delle esternalità, il saper nascondere i costi della produzione, che fossero ecologici o sociali1. Non sono solo le diseguaglianze economiche, ma anche il fatto più basilare che ormai non siamo più in grado di distinguere stanchezza e tristezza. È questo il prezzo che accettiamo di pagare per mandare avanti tutto. E il primo passo politico da fare è riconoscere che niente di quello che consideriamo parte di un ordine naturale e precostituito è davvero un ordine naturale e precostituito: gli orari, gli effetti, le regole. Tutto si può rinegoziare. Ci si può fermare, non solo individualmente. È questa l'essenza della politica: che tutto si può rinegoziare.
Ci penso e ci ripenso, perché da una parte lavoro alla mia exit-strategy privata dalla catastrofe (accorciare un po’ alla volta la settimana lavorativa, diminuire le trasferte, contingentare le ore disponibili per le call), dall’altra so bene che non se ne esce da sole, perché a un certo punto anche ad Asheville arriva un uragano più forte degli altri; e comunque che vita è quella di chi si rinchiude in un villaggio di lusso protetto da guardie armate?
Ho appena iniziato a leggere Il capitale nell’Antropocene di Saito Kohei, per cercare un modo di disinnescare il prima possibile il sistema – sono convinta che la GenZ può farcela, voglio essere la loro quinta colonna fra i boomer – e già dai primi capitoli mi sento meno sola:
Dal punto di vista dell'equità globale il capitalismo è un meccanismo che non funziona, un surrogato di nessuna utilità. Come abbiamo dimostrato nel primo e secondo capitolo, un capitalismo fondato sulla traslazione e sull'esternalizzazione non può riuscire a realizzare un'equità globale. E se lasciamo campo libero all'iniquità, il risultato sarà una diminuzione della percentuale di sopravvivenza dell'intero genere umano.
Ripetendo un concetto già espresso, in un'epoca di crisi ambientale non dobbiamo cercare di garantire la nostra sola sopravvivenza. Anche se ci permetterebbe di guadagnare un po' di tempo, essendo il mondo uno solo alla fine non avremmo piú dove cercare riparo.
Attualmente, chi vive in uno dei paesi sviluppati che rientrano in quel 10-20 per cento in cima alla classifica dei detentori del reddito globale si sente al sicuro. Perseverare negli attuali stili di vita, però, non farà che aggravare la crisi ambientale in tutto il pianeta. Al termine di questo percorso, solo l'1 per cento, con i suoi ultrabenestanti, potrà continuare a vivere come ha fatto finora.
È per questo che il principio dell'equità globale è un principio umanitario che non ha nulla di astratto né di ipocrita.
Alla domanda “come va?” una parte di me vorrebbe rispondere che sono una persona fortunata e felice, l’altra che mi sento un po’ una merda a pensare al mondo intorno, ma non posso e non voglio far finta che non ci sia. E continuo a chiedermi cosa posso fare ogni giorno un po’ di più per gettare sabbia negli ingranaggi del sistema, che prima o poi dovremo per forza rallentare2 – e sarebbe meglio farlo per scelta che dopo aver sbattuto contro un muro.
E sì, se mi chiedi come va, sono anch’io stanca. La settimana scorsa è durata tantissimo, con la trasferta a Giffoni per Ecommerce Hub e rientro di sabato; qualche ora da turista a Salerno – il Museo Archeologico tutto per me, l’Apollo, i vasi attici, le collane d’ambra, poi i marmi della cripta del Duomo, e strade colorate e dense di strati di storia – e poi tutta l’Italia mi è passata davanti mentre il treno correva verso Nord.
E ora, dopo una settimana fitta di persone e incontri, ho voglia di silenzio, stare sul divano a leggere, camminare su un sentiero, andare a letto presto e dormire. Sono troppo stanca per progettare la rivoluzione adesso, ma sono fiduciosa che prima o poi una strada la troviamo.
E qui mi viene in mente ciò che scrivevo a proposito del film La zona di interesse:
Lo senti il rumore di fondo? È la macchina costruita per sfruttare buona parte dell'umanità e del mondo vivente, quella che ci fornisce oggetti inutili, fast fashion, benessere che consumiamo senza farci troppe domande pur sapendo – magari non nei dettagli – come ci è arrivato.
Sarà la stagione, perché il mio pippone sulla lentezza è di un anno fa.
Dovremmo smettere tutti di fare qualunque cosa. Non come sciopero, che è uno strumento del passato. Proprio del tutto. Domani ci alziamo e non facciamo nulla, mai più. Quanto andrebbe avanti la civiltà? Due giorni? Tre?
Sono davvero colpita dalle parole di Cotugno perché negli ultimi anni ho davvero sperimentato il burnout: problemi grossi in famiglia (che per fortuna stanno diventando sempre più digeribili) e calci nel sedere lavorativi, senza mai che fosse messa in dubbio la mia professionalità, cioè fini a sé stessi, sistemici, non conseguenza di una qualche mia azione. Ora sto finendo un po' di ferie accumulate prima di passare a un nuovo lavoro che mi sembra migliore, e da un mese vivo in modalità semi-svenuta. La prossima settimana mi libero anche del cellulare e della famiglia e sto tre giorni nel bosco di Camaldoli a leggere. Per fortuna ho letto da poco Rest Is resistance, lo consiglio.