Scrivo di getto la domenica mattina, prima di andare a camminare, dopo aver visto ieri sera al cinema “La zona di interesse”, il film di Jonathan Glazer che descrive la vita della famiglia Höß: lui comandante ad Auschwitz, lei paradigma della perfetta moglie tedesca, cinque bambini, vita sana all’aperto, un giardino rigoglioso dietro casa.
Ma la casa sta a ridosso del muro che circonda il campo di concentramento, dove con efficienza teutonica il comandante Höß gestisce il lavoro e lo sterminio, attento a contenere i costi, usare al meglio le risorse – intorno al campo si sono spostate molte industrie, a cui viene fornita manodopera a costo zero – e fare tutto questo a maggior gloria del progetto di Hitler.
Non ci sono scene cruente nel film, non c’è violenza esplicita, gli internati sono ombre sullo sfondo. Il film non parla del campo di concentramento, parla di chi sta fuori e sa.
Il merito più grande di questo film è che ti tiene ferma nella zona del disagio
I minuti con lo schermo vuoto e la musica dissonante tutto intorno, la banale quotidianità dei gesti di routine del comandante e della sua famiglia, che mi hanno ricordato i giorni tutti uguali di Perfect days; fino al geniale flash forward sulla Auschwitz di oggi, che dovrebbe servire come antidoto a ripetersi di certe tragedie, se solo ne ascoltassimo la lezione.
Alla famiglia del comandante arrivano ogni giorno le cose sottratte ai prigionieri: vestiti, un pelliccia che in tasca nasconde un rossetto, i denti d'oro, lasciti forzati di gente che pochi mesi prima non avremmo potuto distinguere dalla famiglia Höß. Il giardino rigoglioso è fertilizzato dalla cenere che arriva dal forno, portata da ombre, i prigionieri che, per avere incarichi di quel tipo, hanno comunque un qualche piccolo privilegio nella scala dell’orrore (Primo Levi ne parla lucidamente in “Se questo è un uomo” e “I sommersi e i salvati”, dai campi è sopravvissuto quasi solo chi aveva un qualche tipo di privilegio, l’accesso a un po’ più di cibo, un lavoro meno sfiancante, la possibilità di rubare qualcosa).
Anche le donne di servizio della casa (“ragazze del luogo”, le chiama Frau Hedwig) sono quasi delle privilegiate, perché servono in un posto dove non vengono picchiate ogni giorno, dove possono raccogliere anche loro qualche briciola: scelgono un vestito a testa dal sacco arrivato dopo la selezione del campo e mangiano tutti i giorni, anche se basta una mancanza nel momento sbagliato per essere apostrofate dalla padrona che ricorda loro “potrei chiedere a mio marito di far spargere le tue ceneri nel campo qui vicino”.
La zona di interesse è qui, adesso
Lo senti il rumore di fondo? È la macchina costruita per sfruttare buona parte dell'umanità e del mondo vivente, quella che ci fornisce oggetti inutili, fast fashion, benessere che consumiamo senza farci troppe domande pur sapendo – magari non nei dettagli – come ci è arrivato.
È un caso che noi siamo da questa parte e non dall'altra: avremmo potuto benissimo finire di là, non c'è merito nella fortuna.
Al rumore di fondo siamo quasi sempre assuefatte, lo diamo per scontato, ci convinciamo quasi che non è poi così fastidioso.
E ci convinciamo che, se non siamo noi a spingere la gente nelle camere a gas, non abbiamo responsabilità né colpe, benché godiamo di un privilegio costruito sulla sopraffazione.
In fondo anche noi abbiamo i nostri momenti difficili, no? Le stanchezze, le cose che non vanno secondo i nostri piani, l'incomprensibile ostilità di chi dovrebbe manifestarci gratitudine, e invece.
Nell’ultima parte de “I sommersi e i salvati” Primo Levi scrive di come i tedeschi normali abbiano avuto la responsabilità di non voler vedere, di non alzare la voce, di non fare neanche un gesto per cambiare il corso delle cose.
Ci sarebbe voluto coraggio, certo. Lo stesso coraggio delle persone che in queste ore a Mosca si espongono per andare sulla tomba di Navalny, quando noi pensavamo che il dissenso in Russia fosse estinto.
Il primo passo è uscire allo scoperto, dirci a vicenda che siamo insieme, diventare tempesta.
Uscire allo scoperto oggi sembra essere una missione impossibile (farlo sulle "piazze" dei social, mi spiace dirlo, ma lascia spesso il tempo che trova e si perde nel chiacchiericcio di fondo), perché se qualcuno non raccoglie il bisogno di rappresentanza, se non si trovano forme aggregate di partecipazione, come si fa? Io ho più domande che risposte.
Farci tempesta, lo penso ogni giorno. Da soli non si va da nessuna parte