In questo scorcio di fine estate, che ci regala finalmente temperature sopportabili e giornate limpide, trovo in me e nelle persone con cui parlo pochissima voglia di riprendere i ritmi soliti di lavoro.
Ho passato una bella estate, sono andata in montagna e in Norvegia, ma, a differenza che in passato, l’arrivo di settembre non mi mette nessun friccicore da ripresa delle attività, varo di nuovi progetti, buoni propositi: faccio fatica a tenere la testa otto ore al giorno sul lavoro, la mente e il corpo chiedono pause, i miei propositi riguardano soprattutto trovare il tempo per disegnare e organizzarmi nei prossimi mesi per usare i Guest-Point che sto accumulando su HomeExchange.
[Nota per soc* collegh* e clienti di Palabra che mi leggono: non preoccupatevi, la situazione è sotto controllo, tutti i task vengono smarcati in tempo e con mente lucida]
In tutto questo c’entra molto la sensazione di non aver più tanto tempo, risorse ed energia da sprecare: non è tanto il fatto che inizio ad avere una certa età, è più il mondo intorno che mi sembra alla vigilia di un crollo improvviso e disastroso, come quelle persone che incontri dopo qualche tempo che non le vedevi, e ti sembrano invecchiate tutto in una volta e male.
Ricordo una conversazione di cinque anni fa: ero a Trieste per lavorare insieme a Enrico Marchetto sul libro che stavamo scrivendo insieme, e uscimmo a pranzo insieme agli altri soci di Noiza. Non so come finimmo a parlare di riscaldamento globale; io a un certo punto dissi che mi sconvolgeva il fatto che non si parlasse in prima pagina di quanto stava accelerando il degrado degli ecosistemi intorno a noi. Dissi che mi sembrava di guardare al rallentatore la scena di un disastro, un treno che corre verso un precipizio, e io sono a bordo e mi rendo conto che nessuno intorno a me sembra accorgersi di quel che sta accadendo. Dissi che, da ex biologa, leggevo i report IPCC, gli articoli di Nature sull’enorme diminuzione del numero di insetti, le cronache degli incendi nella tundra siberiana, e pensavo che mio figlio forse non avrà il tempo di vedere il mondo come l’ho visto io. Dissi che mi sembrava assurdo che questa non fosse in cima ai pensieri di tutti e tutte.
Dissi tutto questo in tono tranquillo, perché infervorarsi è un inutile spreco di energia; alla fine, tutti i miei commensali non sapevano dove guardare e cosa dire, finché Andrea Santin mi sorrise e commentò “in genere sono io quello che affossa l’umore collettivo facendo discorsi terribili”; io ricambiai il sorriso, mi scusai e passammo ad altro.
Ho letto su Internazionale il lungo pezzo di Jia Tolentino su Come affrontare l’ecoansia (qui la versione originale sul New Yorker, con un titolo più neutro e meno a effetto che forse si sarebbe potuto rendere meglio anche nella traduzione italiana). La domanda di fondo è come trovare un equilibrio funzionale che ci permetta di
restare consapevoli della situazione e della sua gravità, senza negare i cambiamenti in atto e le responsabilità umane;
mettere in atto ogni possibile azione per mitigare / compensare / indurre un cambiamento di politiche;
prendere atto che ci sono situazioni ormai irreversibili, cose perse per sempre, stati di equilibrio infranti;
non impazzire per la disperazione;
non rassegnarci pensando che ormai è tutto inutile.
Non so se nell’articolo c’è una risposta, non mi convince nemmeno tanto la conclusione che sembra in qualche modo rassegnata e rinunciataria. Io alterno due stati d’animo: i momenti in cui faccio lucidamente un bilancio dei miei consumi cercando di darmi un budget e fare scelte razionali per rispettarlo, e quelli in cui mi rendo conto di vivere comunque nel privilegio di chi, per il momento, ha possibilità di scelta all’interno di un range comunque confortevole. Come scrive Tolentino:
Il fatto che potevo permettermi il lusso di ponderare le mie emozioni quanto volevo dimostrava che ero molto più vicina al problema che alla soluzione: i peggiori effetti del cambiamento climatico ricadranno sempre sui poveri e sui diseredati, a livello locale e globale, e in questo contesto era difficile credere che insegnare alle persone fortunate del mondo come dovevano sentirsi fosse qualcosa di più che un’altra forma di egocentrismo. […]
“In occidente non fanno che elaborare, andare in terapia per le loro emozioni, andare nei parchi urbani che noi non abbiamo a pensare alla Terra e scrivere sui loro diari”, mi ha detto Isabella Tanjutco su Zoom qualche settimana dopo il mio primo incontro con Davenport. “Buon per voi che potete, ma noi non possiamo”.
Isabella ha 22 anni e frequenta la Parsons school of design a New York. Lei e sua sorella Natasha, 23 anni, sono cresciute a Manila, e da adolescenti sono diventate attiviste per il clima. Secondo alcune stime le Filippine, un arcipelago di più di settemila isole responsabile di meno dello 0,5 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, è il paese più minacciato dal cambiamento climatico: il livello dei mari che le circondano sale più velocemente della media globale, e la maggior parte della popolazione vive nelle pianure costiere.
Be the change, eccetra
E comunque di fronte all’accelerazione degli effetti della crisi climatica quale dovrebbe essere la reazione sana? Concordo con quello che scrive Federico Zuolo in un articolo pubblicato su Domani, Psicopatologia del cambiamento climatico:
Se l’ecoansia è una forma emergente che manifesta disagio rispetto alla situazione attuale e futura, poco è stato detto riguardo alle altre risposte. Infatti, si può delineare uno spettro psicopatologico rispetto al cambiamento climatico, di cui l’ecoansia è la forma più razionale.
Oltre agli effetti sulla psiche individuale e ai disturbi che può comportare, la risposta al cambiamento climatico individua una gamma di atteggiamenti che possono essere spiegati tanto con categorie psicopatologiche, quanto con le tradizionali forme di espressione politica e culturale. Bisogna quindi parlare delle altre forme di espressione individuale e collettiva che il cambiamento climatico genera: depressione, dissociazione, negazione e regresso. […]
Negazione regressiva. La forma più patologica è però un’altra. Del resto, ansia, depressione e dissociazione in qualche forma riconoscono la realtà del cambiamento. Invece, i negazionisti attuano una vera e propria negazione della realtà.
Pur essendo stato sconfessato da migliaia di ricerche, oltre che dagli effetti ora tangibili del cambiamento climatico, il negazionismo ha un certo successo politico e culturale, non solo perché permette di giustificare il solito tran tran, ma anche perché cerca di rimuovere psicologicamente e collettivamente qualsiasi attribuzione di responsabilità. In tal senso il negazionismo comporta un vero e proprio regresso a fasi primordiali dello sviluppo psicologico.
Come il bambino nella fase orale non percepisce altro dalle proprie esigenze e vive solo nel bisogno di suzione, i negazionisti estremi sembrano essere regrediti a una fase di estremo egocentrismo e incapacità di percepire il mondo al di fuori delle proprie esigenze. I negazionisti sono egocentrici non solo in senso morale, ma anche in senso cognitivo poiché, come adulti ancora legati alla fase orale, sono tanto attaccati al proprio consumo di risorse, quanto vittimisti e recriminatori nei confronti di quelli che vorrebbero farli diventare più adulti.
Meno ansia ma più rabbia, intesa come carburante del cambiamento: un cambiamento che deve essere collettivo e abilitato da scelte politiche – opposte a quelle dell’attuale governo italiano – e che comunque implicano anche scelte personali, una consapevolezza di ciò che ci possiamo permettere davvero per smettere di vivere al di sopra delle nostre risorse.
Così, mentre cerco di capire come agire sul versante politico, dal punto di vista personale provo a contenere la mia impronta carbonica complessiva interrogandomi su cosa vale davvero la pena consumare.
Mangio molta meno carne (vedi grafico sotto); nella nuova auto ibrida tengo sempre sott’occhio l’indicatore del consumo medio (è una regola semplice: se vai forte, sgasi, acceleri e inchiodi, consumi tanto; se vai regolare e tranquilla, consumi pochissimo e ricarichi un sacco le batterie); ho deciso che non è un problema se mi presento a un evento con un vestito che ho già messo, perché probabilmente delle mie mise passate me ne ricordo solo io (la gente pensa a noi infinitamente meno eccetra).
Per le ultime vacanze ho preso l’aereo e non ne sono fiera, fra l’altro odio gli aeroporti, odio basculare in attesa dell’imbarco, odio stare per ore chiusa nella luce artificiale e nell’aria riciclata, quindi se è praticabile l’opzione treno non ho dubbi; però viaggiare è uno di quegli ambiti in cui faccio più fatica a fare rinunce radicali, ecco penso che quella sarà la voce su cui investirò tutto il mio budget emissioni.
Sono tutte scelte da persona privilegiata, sia chiaro: ma essere consapevole del privilegio e cercare di ridurne l’impatto mi sembra una base minima di onestà.
Rallentare salva la vita
I cinque operai morti sui binari a Brignasco sono vittime della fretta di iniziare prima, finire presto, risparmiare sui tempi e sui costi; pretesa che arriva dall’alto, amplificata dal sistema degli appalti e subappalti, talmente introiettata e presa come un dato di fatto, che, per costrizione o meno, sono spesso gli stessi diretti interessati a spingere per fare presto.
È la stessa dinamica per cui sulla strada i furgoncini degli artigiani ti tallonano a poche spanne per lanciarsi appena possibile in sorpassi azzardati, o i muratori salgono sui tetti senza imbrago o abbigliamento di sicurezza, fino a quando non succede un incidente e si piange il morto.
Poi ci si riempie la bocca di invocazioni alla cultura della sicurezza, si moltiplicano i fogli di carta da compilare e firmare, la gente va ai corsi obbligatori sbadigliando e bestemmiando; ma finché non mettiamo in discussione un sistema che accetta una distribuzione del tutto iniqua della ricchezza, tenendo tante persone in condizioni di ricattabilità e disperazione, non ne usciamo.
Dobbiamo darci tempo; prendercelo se necessario
Rallentare, subito. Fare meno e meglio. Prenderci il tempo di cambiare le regole, le priorità. Questo è il proposito di settembre, se dobbiamo averne uno.
Mi viene in mente che la maggior parte delle volte in cui parlo con gli amici e condivido i piccoli accorgimenti per un consumo consapevole - per esempio la spesa dal contadino vicino a casa, l'acqua alla casina comunale per evitare la plastica, ecc... - mi dicono tutti "ma io non ho tempo!".
Io non mi capacito.
Non mi capacito davvero di questa totale mancanza di responsabilità nei confronti del pianeta, delle generazioni future, di noi stessi pure, che se fossimo davvero egoisti faremmo meglio di quello che stiamo facendo.
E invece siamo forse siamo solo stupidi.
Concordo su tutto Alessandra