Ringrazio di cuore
che, dopo aver letto la mia ultima newsletter, ha insistito per farmi leggere Doppio. Il mio viaggio nel mondo dello specchio, l’ultimo saggio di Naomi Klein.Lo spunto del libro viene a Klein dal rendersi conto che spesso viene confusa con un’altra Naomi, cioè le vengono attribuite dichiarazioni e prese di posizione espresse da Naomi Wolf, anche lei autrice e saggista – è suo uno dei testi più letti del pensiero femminista, Il mito della bellezza – che nel corso degli anni è scivolata progressivamente verso posizioni complottiste e reazionarie, fino a diventare paladina dei movimenti no-vax e ospite fissa di Steve Bannon e dei podcast alt-right.
Lo sconcerto per questo scambio di persona dà il via a una riflessione sul concetto di Doppelgänger, il nostro doppio, l’inquietante versione alternativa e distorta di noi; si tratta di un tema esplorato in varie opere letterarie, ma la riflessione di Klein prende quasi subito la strada dell’analisi politica e sociale, perché nel suo caso ciò che la sconcerta è essere entrata in connessione con la galassia del complottismo nelle sue varie forme.
E Klein non può che riconoscere come la deriva complottista sia l’altra faccia del disagio che viviamo in una società sempre più complessa e crudele verso chi non ce la fa a tenere il passo:
Perché non possiamo cambiare ciò che non capiamo. E perché il sistema è davvero truccato e la maggior parte delle persone viene effettivamente fregata – ma, senza una profonda comprensione della spinta capitalista a individuare sempre nuove fonti di profitto da inglobare e sfruttare, molti si immagineranno che sia una cabala di malvagi individui a tirare le fila di tutto quanto.
Una società in cui si moltiplicano Doppelgänger autogenerati:
Una cultura inquinata da varie forme di sdoppiamento, dove tutti quelli che hanno un profilo o un avatar online creano doppi, copie virtuali di noi stessi, che ci rappresentano agli altri. Una cultura che ha portato molti di noi a pensarsi come un marchio personale, plasmando un’identità scomposta che è allo stesso tempo noi-e-non-noi: un soggetto duplicato che esibiamo incessantemente nell’etere digitale come biglietto d’ingresso in una famelica economia dell’attenzione. Il tutto mentre le aziende tecnologiche usano questi dati per istruire le loro macchine a simulare comportamenti umani con l’intelligenza artificiale, creare sosia verosimili con i loro programmi, le loro logiche e le loro minacce.
Leggendo queste parole, mi risuonava dentro il senso sempre più forte di insensatezza che mi suscita lo scroll infinito di microcontenuti sul social di turno – che si tratti di Twitter, Instagram, LinkedIn o Threads – una gara di frasi ad effetto e polemiche infinite, un enorme spreco di tempo, energia elettrica e risorse mentali che succede mentre intorno il mondo va a fuoco. Ma del resto
La crisi planetaria – così complessa e di enorme portata – richiede uno sforzo collettivo e coordinato su scala mondiale, che è in teoria possibile, ma spaventosamente difficile da attuare. È molto più facile padroneggiare il nostro Io, la marca chiamata TU, lucidarla, levigarla, trovare la corretta angolazione di ripresa e gli effetti visivi giusti, far la guerra alla concorrenza e agli intrusi, gettare fango su di loro.
E non ho potuto fare a meno di rispecchiarmi in un altro fenomeno ben descritto da Klein, quando parla di come certe teorie complottiste hanno trovato un terreno fertile nella cultura della cura del corpo:
Con i sogni di giustizia infranti, insieme all’idea di una vita collettiva migliore, ognuno ha iniziato ad arrangiarsi da solo – una massa di individui atomizzati che hanno iniziato ad arrampicarsi l’uno sull’altro per ottenere un vantaggio in un mercato del lavoro deregolamentato e precario. È in questo contesto, ha scritto Ehrenreich, che molti si sono rivolti alla cura del corpo, con i tapis roulant che hanno sostituito le marce di protesta e i “pesi liberi” che hanno sostituito l’amore libero.
[…] Illustrando il suo rapporto di lunga data (e spesso conflittuale) con l’attività praticata in palestra, Ehrenreich ha scritto: “Forse non sono in grado di fare molto per una grave ingiustizia nel mondo, almeno non da sola o in tempi brevi, ma posso decidere di aumentare a dieci chili la regolazione della macchina per migliorare il tono muscolare delle gambe e ottenere un risultato significativo in poche settimane.”
L’illusione di potersi salvare da soli è potente, perché appare più alla portata di mano rispetto al cambiamento collettivo: in fondo, decenni di manuali di auto-aiuto non ci hanno inculcato il principio che è solo su noi stessi che possiamo agire? Che se ci sentiamo stressati e arrabbiati, è una nostra scelta, perché potremmo/dovremmo scegliere di affrontare la realtà in modo diverso, respirare, meditare e riprendere in mano il timone della nostra vita? Non sto dicendo che meditazione, yoga, esercizio fisico siano il problema, ma il problema è scambiarli con la soluzione, per non affrontare le cause vere del nostro disagio. Il problema è pensare che, in fondo, noi possiamo cavarcela da soli, anche di fronte a problemi globali come la catastrofe climatica:
Io me la caverò, sono preparato, con le mie scorte alimentari, i miei pannelli solari e la mia posizione privilegiata su questo pianeta, saranno gli altri a soffrire. Il problema di questa narrazione è che impone di trovare il modo per condividere e razionalizzare la sofferenza di tutti gli altri. Ed è qui che entra in gioco l’idea che considera la morte degli altri come una forma inevitabile di selezione naturale, forse addirittura una benedizione.
Io non posso negare di avere anche questi pensieri, di ragionare su come posso, in un mondo che sta andando a rotoli, cercare almeno di dare a mio figlio qualche vantaggio competitivo. Se mi rapporto alla società italiana e alle mie condizioni familiari di origine, non partivo dalle prime file – femmina di famiglia operaia – e sarebbe facile cullarmi nella consolazione meritocratica di essere l’unica artefice del mio relativo successo. Ma non sono capace di tenere gli occhi chiusi troppo a lungo, di vedere le mie condizioni di vantaggio – una famiglia più avanti dei suoi tempi che mi ha sostenuta, il vivere in una zona d’Italia ricca di beni e servizi, per non parlare del paragone con chi non ha un passaporto UE in tasca – e ho fatto abbastanza vita di comunità per non dimenticare mai le parole di Don Milani,
Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l'avarizia.
C’è una strada d’uscita? Torno al libro di Klein:
Siamo tutti intrappolati in strutture economiche e sociali che ci incoraggiano a perfezionare ossessivamente le nostre minuscole personalità, mentre sappiamo – anche solo a livello subconscio – di trovarci negli ultimissimi anni in cui potremmo ancora evitare una fatale crisi planetaria. La finestra del cambiamento si restringe sempre di più proprio mentre i nostri problemi diventano sempre più grandi.
[…] Se la finzione, la scissione e la proiezione sono tutte tecniche per eludere il problema rappresentato dalle Terre d’ombra, allora né il distacco buddista né l’integrazione freudiana dell’inconscio sono sufficienti ad affrontarlo. Le nostre crisi sono concrete e profondamente collettive, e così saremo in grado di sopportare realtà insopportabili solo adoperandoci al contempo per cambiarle. Questo significa che dobbiamo agire (Azione! Azione!) per rendere il mondo diverso da quello che è oggi. Dobbiamo tentare, con la massima urgenza, di immaginare un mondo che non richieda Terre d’ombra, che non implichi persone sacrificali ed ecologie sacrificali e continenti sacrificali. Più che immaginarlo, dobbiamo iniziare – subito – a costruirlo.
Abbiamo bisogno di un’azione collettiva, di chiedere – di pretendere – più società, non meno. Questo è il tema del libro che sto leggendo adesso, La società esiste, di Giorgia Serughetti; anche qui si contesta l’assunto contemporaneo che riduce ogni problema a mera questione individuale, da risolvere “da soli”.
Se tutti siamo imprenditori di noi stessi, se cioè siamo tutti capitalisti, in quanto proprietari e responsabili del nostro «capitale umano» – e questo vale per il fattorino di Amazon come per la migrante in cerca di fortuna in Europa, per il manager d’azienda come per la musicista – non ha più senso parlare di «capitale» e «lavoro», né di «classi» in conflitto. In realtà è il lavoro stesso a scomparire in quanto tale: tutte le attività sono funzionali all’accrescimento del proprio valore, e le entrate sono redditi da investimento personale. Non esiste sfruttamento, ma solo auto-sfruttamento. Perciò viene meno ogni ragion d’essere per i diritti collettivi, e tanto più per le forme organizzative come i sindacati.
Serughetti analizza anche i rischi di focalizzarsi su battaglie identitarie, con una frammentazione delle istanze che porta a depotenziare l’azione:
Quando il conflitto politico si struttura non intorno a ciò che le persone pensano e desiderano, bensì intorno a ciò che ognuno e ognuna «è», il riconoscimento reciproco come membri di uno stesso gruppo sociale e la necessità di differenziarsi da altri gruppi procedono di pari passo.
Perché questo sia un rischio lo spiega bene un altro libro citato da Serughetti:
Nel saggio fantapolitico intitolato “Come vincere la guerra di classe”, l’economista Susan George immagina, all’indomani della crisi finanziaria del 2008, dieci esperti riuniti in una lussuosa villa sul Lago di Lugano con il compito di rispondere a questa domanda per conto dei «committenti», alcuni degli uomini più ricchi del mondo.
[…] Per garantire che il potere di coloro che manovrano le leve dell’economia e della finanza agisca indisturbato, per scongiurare il rischio di un’opposizione di massa, è importante che la nozione di «diritto universale» si perda nella frammentazione di una moltitudine di gruppi, ognuno preoccupato delle ingiustizie subite in base alla propria razza, etnia, sessualità, religione, disabilità. L’obiettivo è dunque incoraggiare le divisioni e le espressioni minoritarie di qualunque genere e su qualunque argomento, fino a «creare una grande cacofonia di gruppi di vittime», tutte preoccupate dei propri diritti calpestati, tutte pronte a rivendicarne la priorità su quelle di altri gruppi, tutte – soprattutto – concentrate sulle differenze che le separano tra loro.
[…] È inoltre molto auspicabile che le piattaforme politiche delle diverse organizzazioni restino separate: l’ambiente agli ecologisti, il lavoro ai sindacati, le questioni di genere alle femministe, e così via. «La sfida sarà tenerli separati, ognuno nel suo orticello. Non appena si accorgessero che le loro lotte sono la stessa e che riguardano tutte il futuro delle persone e del loro habitat, i Committenti e i loro amici sarebbero in pericolo»
Così torno a riflettere sulle mie identità di lotta, sulle cause a cui tengo, su come non posso fare a meno di vederle tutte collegate e quanto mi sforzo di stare lontana dalle reductio ad unum, dal leggere ogni fenomeno con una sola lente interpretativa, fosse anche il femminismo o l’ambientalismo o la giustizia sociale.
E penso che dobbiamo e possiamo provarci; riprendo a leggere Klein:
Se c’è una cosa che ammiro dei diagonalisti e di altri abitanti del Mondo Specchio, è che credono ancora nell’idea di una realtà mutabile, un’ambizione che temo troppe persone da questa parte dello specchio abbiano perduto. Non dovremmo inventare le cose come fanno loro, ma smettere di trattare un gran numero di sistemi creati dall’uomo – le monarchie e le corti supreme, i confini e i multimiliardari – come qualcosa di immutabile e inalterabile. Poiché tutto ciò che è stato creato dagli esseri umani può essere cambiato da altri esseri umani. E se i nostri sistemi attuali minacciano l’essenza stessa della vita, come fanno, allora devono essere cambiati.
Un paio di cose che puoi prendere in considerazione di fare
C’è una petizione sostenuta da Oxfam per chiedere di introdurre a livello europeo una tassazione sui grandi patrimoni, insomma tax the rich. Io penso che oggi siamo in una situazione tale da non poter più tollerare che ci sia chi ha ricchezze tali da non poter essere consumate in mille vite, e persone che vivono in povertà anche se lavorano; e non mi dire “ma sono soldi guadagnati”, perché oltre una certa soglia non c’è patrimonio che non affondi le sue radici nel sangue e nello sfruttamento.
Poi c’è Gaza, dove si muore sotto bombardamenti che hanno serenamente messo in conto di fare vittime civili. Su Israele e la Palestina, Klein nel suo libro scrive alcuni capitoli illuminanti e quasi profetici, con riflessioni che partono da come l’Occidente non abbia davvero elaborato cosa è stato il nazismo, classificandolo come “altro da sé” e auto-assolvendosi da ogni responsabilità verso questa versione abnorme e spaventosamente evidente della sua civiltà, un doppio inaccettabile; e questa radice storica della nascita di Israele non potesse che portare alle conseguenze tragiche che abbiamo sotto gli occhi. Tutti i capitoli sulla Palestina valgono da soli la lettura del libro, ti lascio solo una breve citazione:
Quanto a chi non è toccato direttamente da questa lotta, sarebbe utile se il dibattito si mantenesse su un adeguato livello di complessità, riconoscendo che gli ebrei arrivati in Palestina negli anni quaranta erano sopravvissuti a un genocidio, profughi disperati, molti dei quali non avevano altra scelta, e che in quanto coloni hanno partecipato alla pulizia etnica di un altro popolo. Che erano vittime del suprematismo bianco in Europa ammantatesi della presunta superiorità dei bianchi in Palestina. Che gli israeliani sono a loro volta nazionalisti e il loro paese è stato da tempo reclutato dagli Stati Uniti per fungere da base militare in subappalto nella regione. Tutte queste cose sono vere simultaneamente. Contraddizioni simili non rientrano nella consueta cornice dualistica dell’antimperialismo (colonizzatore/colonizzato) o delle politiche dell’identità (bianco/razzializzato), ma se i rapporti tra Israele e Palestina ci hanno insegnato qualcosa è forse che il pensiero dualistico non ci permetterà mai di superare le identità scisse, o le nazioni scisse.
Tornando al “che fare”, c’è questa campagna di Medici Senza Frontiere condotta in collaborazione con Banca Etica, un crowdfunding per aiutare MSF a far fronte all’emergenza sanitaria e umanitaria. MSF lavora in Palestina da anni, penso mai in condizioni tragiche e assurde come quelle attuali: donare è ben poco rispetto a ciò che fanno loro là, ma è una cosa che possiamo fare qui e adesso.
E auguri, davvero
Ci siamo dentro insieme, e solo insieme possiamo trovare la strada.
Grazie per essere portatrice di questa visione sul senso del riunire un mondo che va a pezzi, proprio nel giorno in cui tutti si stanno occupando solo della propria tavola.
Bella uscita, Alessandra: voglio leggere anche io il libro di Naomi Klein, possibilmente in originale dopo aver letto per caso questo post di Wu Ming 1 https://www.wumingfoundation.com/giap/2023/12/vergognosa-traduzione-doppelganger-naomi-klein/