Nel suo recente libro The Anxious Generation, lo psicologo Jonathan Haidt analizza i dati sull’aumento del disagio psichico degli adolescenti nordamericani nell’ultimo decennio, proponendo sia un’interpretazione delle cause, sia alcuni consigli per invertire la tendenza.
Delle tesi del libro si sta parlando molto, in genere sintetizzando la tesi di Haidt in un “togliete lo smartphone ai bambini”; oh, perché non ci abbiamo pensato prima?
Eccola lì, la soluzione facile a portata di titolo: e come sempre, non serve a niente.
Lo ripeterò fino alla nausea: ogni soluzione semplice è incompleta e ben poco utile.
I consigli finali con cui Haidt chiude il libro sono quattro:
niente smartphone fino alla scuola superiore;
niente social media prima dei 16 anni (che poi sarebbero i termini di servizio di molte piattaforme)
niente smartphone a scuola;
più indipendenza, gioco libero e responsabilità nel mondo reale.
Come giustamente faceva notare Mafe de Baggis su LinkedIn nei giorni scorsi, quasi tutti i commentatori si fermano ai primi tre punti, che offrono uno spunto retorico facile: la tecnologia cattiva sono smartphone e social, basta ritardarne il prima possibile l’accesso e tutto andrà bene.
Dell’ultimo punto – allentare un po’ il guinzaglio con cui gran parte dei genitori limitano ossessivamente le vite dei figli – quasi nessuno si occupa: forse perché qui non si tratta di restringere, controllare e normare, ma di andare nella direzione opposta.
Con un figlio diciottenne, ormai io quello che ho fatto non posso più cambiarlo, errori compresi; ma posso serenamente dire che mi sono sempre preoccupata innanzitutto che potesse fare esperienze di libertà, indipendenza e responsabilità, cosa oggi ben più complicata che togliergli lo smartphone.
Quando a otto anni è partito per le prime vacanze di branco coi lupetti, eravamo tutti eccitati e sicuri che si sarebbe divertito moltissimo; quando in prima media gli ho insegnato ad andare a scuola in autobus da solo, i nonni si preoccupavano e gli altri genitori mi guardavano come una strana; il fatto che lui abbia chiesto uno smartphone più tardi dei suoi coetanei magari è un caso, magari è perché aveva altro da fare, o perché ha passato molte estati al mare in un posto tranquillo dove poteva anche andare e tornare dalla spiaggia in bici da solo.
E qui vengo a un altro punto: se è diventato quasi impensabile lasciare i bambini giocare per strada, è perché collettivamente non abbiamo ancora messo in discussione un’altra tecnologia pervasiva e molto più pericolosa: quella del trasporto privato fondato su automobili sempre più numerose e ingombranti, che limitarne la velocità nelle aree urbane sembra lesa maestà – vedi l’orrenda riforma del codice della strada che il nostro parlamento sta approvando.
Per lasciare più autonomia e indipendenza ai figli servirebbero città più umane, e anche orari di lavoro più brevi, remote working quando è possibile, retribuzioni più alte, spazi collettivi accoglienti e più lavoro di cura, pagato bene, fatto da persone preparate e motivate. È un cambiamento ben più radicale di una circolare che vieti l’uso dello smartphone a scuola, ma è l’unico che mi interessi davvero.
Qualche altro dettaglio che forse aumenta l’ansietà dei giovani. Forse, eh.
A diciott’anni io andavo alle manifestazioni contro il riarmo nucleare, due anni dopo Sting cantava Russians, ma nessuno di noi credeva seriamente che saremmo morti in un olocausto nucleare.
Mio figlio a diciott’anni ha già vissuto una pandemia globale, un’alluvione di scala regionale, una serie continua di mesi ciascuno “il più caldo di tutta la storia”, e la guerra in Europa è diventata un discorso forse improbabile, ma non impossibile. Quando gli sento dire “io e quelli della mia generazione non diventeremo vecchi” mi si spezza il cuore, ma faccio fatica a trovare argomenti razionali per dirgli che si sbaglia, perché ha molte ragioni per essere pessimista.
Con o senza smartphone, vogliamo occuparci delle cose che contano? Ho letto su Nature una lunga riflessione di un climatologo, Adam Sobel, dal titolo Siamo spacciati? Come affrontare la scoraggiante incertezza sul cambiamento climatico. Il messaggio centrale dell’articolo è che, invece di chiederci se siamo già spacciati, dobbiamo ragionare su cosa possiamo fare, e farlo. E soprattutto aver cura dello stato delle nostre democrazie, perché le derive autoritarie potranno solo accelerare la velocità del cambiamento climatico e aggravarne gli effetti.
Ci sono anche piccole buone notizie
Premessa: nelle scorse settimane il diciottenne ha partecipato alle selezioni per entrare nel corso di ingegneria informatica dell’università di Trento (andate bene, è riuscito a entrare nel corso in inglese che era quello a cui puntava); così mi sono passati sotto gli occhi vari regolamenti e documenti di quell’università, e non ho potuto fare a meno di notare che sempre, senza eccezioni, veniva usata la doppia enunciazione del maschile e femminile (le studentesse e gli studenti, gli iscritti e le iscritte).
È di questi giorni la notizia che la stessa università ha deciso, per il Regolamento di Ateneo, di usare il femminile sovraesteso: sì, in effetti la doppia specifica, maschile e femminile, appesantisce abbastanza i testi, e questo è il motivo per cui si finisce spesso per tornare al maschile sovraesteso. Ma, se “il maschile comprende entrambi i generi”, perché non potrebbe essere lo stesso per il femminile? Se la risposta che ti viene alle labbra è “perché si è sempre fatto così”, torno a chiederti: perché si è sempre fatto così? La risposta la conosci, quindi sai che possiamo provare a farlo in modo diverso, fino a quando troveremo una soluzione ancora migliore – o non ci sembrerà poi così strano che i default possano cambiare genere.
È primavera, proviamoci, dai.
Grazie Alessandra, sentir dire queste cose da un genitore mi conforta. Lavoro in autoscuola da tanti anni, spesso vedo genitori che addirittura parlano al posto dei loro figli al momento dell’iscrizione, rispondendo a semplici domande come “hai già compiuto gli anni?”, come se il figlio non fosse in grado di farlo.
I ragazzi hanno tanti problemi ad imparare a guidare proprio perché non hanno motricità, percezione del loro corpo nello spazio, che si acquisisce da bambini facendo tante attività pratiche, e fanno fatica a gestire l’ansia il giorno dell’esame perché non sono abituati a fare qualcosa che dipenda solo da loro.
E per quanto riguarda i limiti di velocità più bassi, io sono completamente d’accordo, ma pare che andare piano sia un disonore, e anche insegnare a farlo (ma io non mi stancherò mai di dire “togli il piede dal gas e guardati intorno).
Tutto molto vero.
Meno cellulare, più indipendenza, gioco libero, sport.
In un paese - piccola città forse è più semplice che in una metropoli.
Noi stiamo cercando di trasformare la nostra microscopica società sportiva in un piccolo centro di aggregazione per i ragazzi, ed i genitori ne sono entusiasti.
Qui non possono usare il cellulare (almeno fino ai 16 anni, guarda caso), giocano liberi quando non c'è attività, hanno il loro spazio per fare compiti, leggere, studiare. Organizzeremo un cinema, un laboratorio di pittura (dipingeranno le pareti di ufficio ed aula), mostre con i loro disegni, iniziative in cui saranno loro ad insegnare a genitori e nonni i rudimenti del loro Sport.
Incentiviamo il fatto che vengano da soli, a piedi o in bici (quasi tutti abitano nel raggio di 3-4 km dal circolo) magari aggregandosi in piccoli gruppi.
Sul tema "generazione ansia" esistono testi seri in italiano?
Acquisterò anche questo volume in inglese, ma la lettura in lingua mi risulta faticosa e mi piacerebbe un libro da poter leggere velocemente e suggerire anche ai genitori dei ragazzi (molti dei quali non conoscono l'inglese).