Settimane croccanti, fosse solo per il passaggio dai quasi 30°C di metà aprile a una lunga sferzata d’inverno, il cui unico vantaggio è stato che ho corso i miei primi 10km senza scoppiare.
Ho festeggiato il compleanno a Venezia
Sempre bello passarci almeno una notte, anche quando batti i denti dal freddo e la notte senti la sirena dell’acqua alta e il rumore sordo e continuo delle pompe. Abbiamo riunito tutta l’agenzia – adesso siamo in cinque! – perché il full remote è bello, ma serve anche vedersi dal vivo, e possibilmente farlo in posti belli.
L’occasione è stata la due giorni di Diadora in Arsenale a cui eravamo invitati il martedì mattina, un’immersione nella storia di un’azienda che ha davvero tanto da raccontare. Già solo arrivarci è stato bellissimo, perché a Venezia, anche nei giorni più affollati di turisti, se esci dai percorsi segnati che dalla stazione portano a Rialto e San Marco, e soprattutto se ti sposti verso Castello, ti si apre una città meravigliosa e vuota di folla, un labirinto di colori e sorprese; la più spettacolare è stata vedere Venezia dall’alto della torre di Porta Nuova, la “macchina per alberare” costruita a inizio ‘800 dai Francesi.
Poi da lì riattraversare di nuovo tutta la città, fermarsi a pranzo in quel posto meraviglioso che è l’Orient Experience, e mentre il sole torna a illuminare calli e campi scappare a salutare clienti adorabili prima di riprendere il treno verso casa.
25 aprile pensando a domani
Mi ha fatto molto pensare quello che ha scritto Giulia Blasi sulla necessità di liberare la Liberazione:
“Non possiamo pensare di festeggiare la Liberazione senza avere un piano collettivo per liberarci, una volta e per sempre, dalla cancrena del fascismo. Possiamo cantare Bella ciao quanto ci pare, ma forse abbiamo bisogno di nuove canzoni, non i canti dei nostri nonni e bisnonni ma parole nostre che scandiscano il ritmo della lotta. E ci tocca farla, ‘sta lotta, tirarci fuori la testa dal culo e andare.”
Quest’anno ho proposto al diciottenne di andare insieme in piazza, perché un conto è commentare le notizie a casa fra noi, un altro è sentirsi in tanti e tante, insieme. L’unico modo che conosco per combattere l’avanzata dei tempi bui è ragionare, conoscere, esplorare, provare a passare anche a lui la voglia di farlo… e votare e far votare, sempre continuando a essere una spina nel culo di partiti mai abbastanza progressisti, ma sapendo che comunque chi voti alla fine un po’ di differenza la fa.
Ho letto Mostri di Claire Dederer
Il sottotitolo “Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan” mi aveva fatto pensare che il saggio parlasse solo (solo! già questo è un tema smisurato) della nostra relazione sempre più problematica con le opere di persone che hanno fatto (o sono accusate di aver fatto) azioni spregevoli.
È un tema che mi pongo spesso, anche perché mi accorgo di quanto è cambiata la mia consapevolezza nel tempo e del disagio che provo, oggi, di fronte a opere e artisti che in passato avevo apprezzato o addirittura amato, dando per scontato che esprimessero un “universale umano” che in realtà era estremamente parziale.
Ho percepito fortissimo questo disagio a Barcellona visitando la mostra “Picasso e Mirò”, due artisti che mai avrei messo in discussione un tempo, mentre oggi non posso fare a meno di pensare alla biografia di Picasso, alle donne muse e vittime, oscurate e cancellate dal suo narcisismo, abusate nella vita e fatte a pezzi nelle opere.
Mi ha molto colpita, nel saggio di Dederer, il suo continuo riportare l’attenzione sullo sguardo individuale:
“Ma fermiamoci un momento: chi è questo noi che spunta sempre nella scrittura critica? Noi è un’uscita di sicurezza. Noi è conveniente. Noi è un modo di disfarsi della responsabilità personale e al contempo ammantarsi di autorità senza sforzo. È la voce del critico maschio mediamente colto, convinto di sapere come devono pensarla tutti gli altri. Noi è corrotto. Noi è una finzione. La vera domanda è: posso amare l’arte ma odiare l’artista? Tu ci riesci? Quando dico noi, intendo io. Intendo tu.”
Quasi tutta la storia (non solo) dell’arte che ho studiato a scuola è popolata di grandissimi stronzi egoisti, solo che me li hanno sempre presentati come geni, e come tali era irrilevante il fatto che avessero lasciato dietro di sé una scia di vittime.
E tuttavia, non esiste una formula che ci dica chi possiamo continuare ad amare, e chi dobbiamo cancellare; innanzitutto perché non funziona, o non funziona sempre allo stesso modo – mi sento a disagio davanti a un’opera di Picasso ma godo di Caravaggio o Tintoretto senza farmi problemi – e poi perché, se siamo sincere con noi stesse, dobbiamo riconoscere che una certa dose di egoismo è… necessaria. Scrive Dederer:
“Sono molte le qualità che servono per guadagnarsi da vivere con la scrittura o con l’arte. Ci vogliono talento, intelligenza, tenacia. Avere i genitori benestanti è un buon punto di partenza, lo consiglio caldamente. Ma in fatto di ingredienti necessari, il primo tra pari è l’egoismo. Per scrivere un libro servono molti piccoli atti di egoismo. L’egoismo di chiudere la porta in faccia alla tua famiglia. L’egoismo di ignorare la carrozzina nella sala d’ingresso. L’egoismo di dimenticare il mondo reale per crearne uno nuovo. L’egoismo di rubare storie vere. L’egoismo di riservare il meglio di te a quell’anonimo amante senza volto, il lettore. Il semplice egoismo di dire quello che hai da dire.”
Ho pensato molte volte la stessa cosa rispetto al mio lavoro, chiedendomi quanto le energie, la passione, perfino a volte la pazienza che dedico a scrivere, spiegare, fare andare avanti i progetti, organizzare un Freelancecamp, mi rendano sorda e stanca e disattenta coi miei.
“Ogni scrittrice-madre che conosco si è fatta la stessa domanda. Non che lo dicano ad alta voce, ma sento che lo pensano, ed è un pensiero quasi assordante. Un’identità elimina fatalmente l’altra? Lavorare ti rende una madre meno brava? È la domanda che ti fai continuamente. Ma anche: la maternità ti sta rendendo una scrittrice meno brava? E questa è una domanda un po’ più scomoda.”
Il fatto che queste domande siano declinate al femminile dice chiaramente che fino a oggi agli uomini non è stato chiesto di farsi alcun problema del genere: che problema c’è a essere egoista quando al tuo fianco ci sarà una donna disposta a prendersi cura di te, di figli, casa e anziani, e di accollarsi il carico mentale necessario a farti pensare solo al lavoro?
Del resto questo è il concetto di donna dei fascisti, come spiega bene Giovanni Gentile in questo brano citato dall’ottima Valentina Melis:
“La donna è colei che si dedica interamente agli altri sino a giungere al sacrificio e all’abnegazione di sé: la donna è soprattutto idealmente madre, prima di essere tale naturalmente. Madre per i suoi figli, per gli infermi, per i piccoli affidati alla sua educazione: in ogni caso, per tutti coloro che possono beneficiare del suo amore e attingere a quella sua innata, originaria, essenziale maternità.”
Ma per non finire in questa Gilead in cui qualcuno aspira a riportarci, dovremo farci carico collettivamente del lavoro di cura, perché non sia un accollo automatico attribuito in base al sesso o colore di nascita: realizzare qualcosa, lasciare un segno, che sia nell’arte, nel lavoro, nella politica, non deve essere condizionato alla fortuna di avere a disposizione nonni volonterosi / coniugi sacrificabili / tanti soldi per pagare servizi privati.
Ecco, lottare per i servizi, per il welfare pubblico, è parte della Resistenza quotidiana che serve oggi.
Ma sono andata lontana dal tema iniziale, del resto pure Dederer lo fa, e in questo sta l’importanza di questo saggio (grazie il Post per avere iniziato così bene questa nuova avventura editoriale) che ti lascia con più domande che risposte, e che non cade mai nella tentazione di sentirsi un gradino sopra rispetto a chi legge, e neppure rispetto ai riprovevoli “mostri” di cui parla.
“La verità è che le persone covano emozioni orribili, inopportune, perverse di ogni genere. […]
Ogni bravo artista lo sa: le opere migliori sono frutto del saccheggio del proprio io. Entri, dai un’occhiata in giro, prendi qualcosa che potrebbe mettere gli altri a disagio e lo scrivi. Anche se è terribile, anche se gli altri non vogliono sentirlo, anche se fa sembrare te, l’artista, un pazzo furioso.
Perché il grande scrittore confida nel fatto che il sentimento più orribile sia tutt’altro che unico.
Il grande scrittore sa che anche i pensieri più neri sono ordinari.”
E più avanti:
“Che cosa facciamo con l’arte dei mostri? Questa domanda è un moscerino che ronza attorno al monolite di una domanda più grande: che cosa facciamo con i mostri che amiamo?
Tutti abbiamo amato persone orribili. Come faccio a saperlo? Lo so perché conosco le persone, e le persone sono orribili.”
Accettare la complessità dei sentimenti, dei rapporti, delle relazioni; accettare di poter fare dei pezzi di strada e costruire qualcosa insieme a persone che non ci piacciono nella loro totalità, rinunciare agli assoluti senza perdere la rotta.
Quanto c’è da fare.
Accettare la complessità e rinunciare agli assoluti... Adesso, solo adesso che non scorgo più dietro l'angolo il pericolo in agguato di compromessi che attentino all'integrità (era questo il mio ingenuo pensiero giovanile), adesso capisco quanto sia necessario e saggio quell'accettare e riconoscere che l'assoluto non sia di questo mondo...
Venezia di notte è tutta un'altra cosa 💜 io la amo! È anche l'unico posto al mondo che preferisco visitare in inverno, con il freddo becco, la nebbia magica e i piedi intirizziti. Che meraviglia