Era da un po’ che mi ero ripromessa di leggere Apeirogon, il libro di Colum McCann costruito intorno alla storia (vera) di Bassam Aramin e Rami Elhanan: due padri – uno palestinese, l’altro israeliano – le cui giovanissime figlie sono state uccise, una dalla pallottola di gomma sparata da un soldato israeliano, l’altra in un attentato suicida compiuto da tre palestinesi nel centro di Gerusalemme.
Non è un libro facile: ci si entra un po’ alla volta, in un continuo alternarsi fra ricordi, appunti sulla storia e la natura della Palestina, l’ostinazione con cui questi padri – insieme ad altri familiari di persone uccise nel conflitto israelo-palestinese – scelgono di essere combattenti per la pace, di rifiutare la logica della vendetta che può solo portare altre vendette, altro dolore.
Le scene quotidiane dei loro spostamenti – fra posti di blocco, strade precluse all’uno o all’altro, prevaricazioni quotidiane che avvengono in una terra occupata – si alternano al ricordo ossessivo e ricorrente delle ore che hanno preceduto e seguito la morte delle due ragazzine: i mille rimorsi per ciò che è stato e non è stato, l’angoscia, il vuoto che lascia un lutto insopportabile e senza alcuna possibile giustificazione. Una ragazzina uccisa da una pallottola alla nuca mentre va a scuola dopo aver comprato un pacchetto di caramelle; l’altra, dilaniata da una bomba alla fermata dell’autobus; i frutti marci di uno status insostenibile.
Dice Rami:
Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’Occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato sulla faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera.
[…] La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile. Ha a che fare con il controllo. Forse dobbiamo aspettare che il prezzo per la pace si alzi a un punto tale che la gente comincerà a capire. Forse finirà solo quando questo prezzo supererà i vantaggi.
[…] Nessun popolo può dominarne un altro e ottenere sicurezza o pace per sé stesso. L’Occupazione non è né giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione non è in alcun modo una forma di antisemitismo.
Nelle vite di entrambi a un certo punto c’è un momento in cui si accorgono di non sapere niente di quelli dell’altra parte. Per Bassan accade durante i sette durissimi anni di carcere: arrestato a diciassette anni, picchiato e torturato, cresciuto nell’odio degli occupanti, un giorno, mentre in prigione guarda un film sulla Shoah, ne resta sconvolto e capisce di non poter continuare a lottare senza conoscere il nemico, la sua storia, i suoi pensieri; così inizia a studiare.
[Puoi leggere la storia in questa lunga intervista rilasciata a febbraio scorso]
Per Rami succede dopo la morte della figlia, quando, controvoglia e quasi per sfida, va a un incontro del Parents Circle, l’associazione dei genitori di vittime del conflitto.
Capite, avevo quarantasette o quarantotto anni all’epoca, e dovetti imparare ad ammettere che era la prima volta in vita mia, sì, fino a questo punto – adesso riesco a dirlo, a quei tempi non riuscivo nemmeno a pensarlo –, era la prima volta che vedevo i palestinesi come esseri umani. Non solo come operai nelle strade, o caricature nei giornali, o come vaghe sagome, terroristi, oggetti, ma – come posso dirlo? – esseri umani, esseri umani, non posso credere di dire una cosa del genere, suona così sbagliata, ma fu una vera e propria rivelazione – sì, esseri umani che portano lo stesso fardello che porto io, gente che soffre esattamente come soffro io.
Alla fine torniamo sempre lì: l’unico antidoto alla violenza è conoscersi, imparare, smettere di pensare in termini di muri, nemici, minacce, smettere di disumanizzare l’altra parte. È facile? No, è contronatura. La retorica del “restiamo umani” ignora che è umanissimo e naturalissimo arroccarsi nella propria tribù, e solo evolvendoci dallo stato di natura abbiamo imparato – non tutti, non definitivamente – che possono esserci modi migliori di coabitare il pianeta. Come scriveva qualche settimana fa Luca Sofri,
Gli umani nascono conservatori, geneticamente votati alla conservazione di se stessi, difensivi, timorosi del cambiamento, della novità, del diverso nelle loro vite. La scoperta, la ricerca – e quindi anche l’amore per gli altri e diversi, piuttosto che il timore – crescono con la conoscenza e la comprensione delle cose.
[…] Le persone – noi – diventano rispettose e amanti del prossimo, con tutte le sue differenze, man mano che si allontanano dall’ignoranza: ignoranza che oggi è fatta di due cose, non è più l’ignoranza vuota di analfabetismi e di assenze di informazioni di un tempo. È fatta 1) di riempire la propria conoscenza di cazzate, e 2) di disprezzare la conoscenza che ci manca per non sentirsene umiliati.
È difficile e si naviga controvento, ma quando l’hai capito non è più possibile tornare indietro e far finta di non saperlo.
Apeirogon mi ha insegnato molte cose sulla Palestina e su Israele, e questo è un problema, perché quando sai non puoi più far finta di non sapere.
A proposito di navigare controvento
Quando vado a trovare mia madre, frugo spesso fra le decine e decine di libri che ho lasciato in quella casa e trovo sempre qualcosa da rileggere – dopo tanti anni, spesso sono riscoperte totali. L’ultima volta sono finita nello scaffale dei libri che hanno nutrito le mie giovanili passioni ambientaliste e mi è capitato fra le mani un Rapporto Clima di Greenpeace uscito nel 1990; dentro c’è già tutto, la possibilità di un aumento della temperatura media fra 1,5°C e 4,5°C a metà di questo secolo, il ruolo dei combustibili fossili, le cose da fare e da non fare. Nel 1990.
Decenni di sordità della politica e dell’economia, e ancora si cerca di fare resistenza all’inevitabile, mentre il clima rotto ci viene a chiedere il conto ogni giorno in termini di siccità da una parte e disastrose alluvioni dall’altra. Quanto devono andare peggio le cose prima che inizino ad andare meglio?
Città del cuore
Chiudo con un po’ di bellezza, perché nei giorni scorsi sono tornata a Prato, per la lezione di email marketing al master Wempark. Voglio bene a questa città che tiene insieme miseria e ricchezza, arte e industria, gente di tutto il mondo e un’identità riconoscibilissima anche quando si mescola tante volte con chi arriva e chi parte.
In via Mazzini, la strada che porta da Piazza San Marco al teatro Metastasio, stanno cercando di colorare e ridare vita anche ai negozi chiusi; io non lo so se questo basti per invertire il declino, ma vorrei vedere in giro più coni colorati e i piccoli laboratori che le vetrine tutte uguali dei franchising.
Avevo il cuore leggero, perché in questi giorni finalmente il progetto-monstre che mi tiene impegnata da mesi ha preso la strada della conclusione, e – anche se c’è ancora del lavoro da fare – un po’ di nodi si sono finalmente sciolti.
Adesso posso entrare nel mood “lasciamo tutto in ordine prima di partire per le vacanze”: ho voglia di leggere, rallentare un po’ i ritmi, provare gli acquerelli nuovi che voglio portarmi dietro nei Paesi Baschi. Buona estate anche a te
Ti condivido subito, questa tua é davvero particolarmente preziosa per me stamani, all'indomani del primo turno di legislative francesi ❤️Grazie Ale!
Le parole di Rami mi hanno colpito molto e cadono a pennello. Prima di aprire substack stavo parlando con la mia amica della coppia di israeliani in vacanza conosciuta ieri sera. Erano lì a divertirsi e considerano questo disastro una “situazione”, non una guerra, prima di chiedere alla mia amica “perché dici che non puoi venire ora a visitare Israele?”
Ecco, pareva che non si rendessero conto meno di noi di quello che sta succedendo nel loro stesso paese.
E, quando Rami dice “la vita è bella, il cappuccino è buono” mi ha ricordato appunto le tante storie IG dei contatti israeliani della mia amica che vanno in vacanza o fanno aperitivi o feste. Come se niente fosse.