

Discover more from Viaggio, parlo, scrivo
Il grande catalogo delle strategie
Del perché “contro natura” è un'espressione senza senso e di come la biologia mi spinge a preoccuparmi non solo dei fascisti a casa nostra, ma anche dei dittatori a casa loro.
Mi sono innamorata della biologia in quinta liceo, quando è arrivata una nuova professoressa di scienze; quello che c’era prima era un chimico svogliato per il quale evidentemente l’insegnamento era un ripiego rispetto a non so che altro, mentre la Maria Pia Boschi portò nelle nostre ore di scienze l’entusiasmo di una giovane appassionata della sua materia e desiderosa di farci capire quanto questa fosse importante per capire il mondo.
Non a caso, di una classe di nemmeno 20 persone, in cinque ci iscrivemmo a Biologia; e nonostante io in seguito abbia capito molto presto di non essere fatta né per il laboratorio né tantomeno per l’Università, non me ne sono mai pentita.
La biologia è un framework potentissimo di analisi del mondo
Ti abitua a leggere la realtà come una stratificazione di livelli organizzativi, in cui ogni livello definisce l’ambito delle possibilità di quelli superiori ed è a sua volta condizionato dal funzionamento dei livelli sottostanti; ma a ogni salto di livello emergono nuove regole e possibilità, e non c’è nulla di rigidamente deterministico, anche se possiamo “leggere” le regole del gioco:
la chimica di atomi e molecole fa sì che le macromolecole funzionino in un certo modo;
le strutture cellulari si reggono sul funzionamento delle molecole che le compongono, ma organizzano la materia introducendo un ordine superiore di regole;
i tessuti si differenziano in base alla struttura delle cellule di cui sono fatti, che a loro volta si dispongono e interagiscono secondo modelli che non sono strettamente prevedibili a livello cellulare;
gli organismi sono sistemi in equilibrio dinamico, costantemente in cambiamento; probabilmente gran parte degli atomi di cui sono fatta ora non stava nel mio corpo quando sono nata, tutto è stato metabolizzato e ricostruito nel tempo, e quello che mi rende la stessa persona è lo schema organizzativo che mi governa;
percepiamo, pensiamo, agiamo, per effetto di reazioni chimiche che avvengono nel nostro organismo, le stesse di un batterio o di un’ameba; ma a un certo punto dell’evoluzione, il fenomeno emergente dell’autocoscienza ha fatto sì alcuni esseri “si” pensino e provino emozioni; ed è quasi certo che non siamo l’unica specie a farlo;
gli individui interagiscono con i propri conspecifici e con gli individui di altre specie, in dinamiche di competizione, predazione, cooperazione, mutualismo; biotopi ed ecosistemi hanno bilanci energetici e regole di funzionamento che, di nuovo, non potremmo “ricavare” in modo deterministico dalla chimica o dalla fisiologia, ma che sono comunque definite da ciò che gli organismi possono o non possono fare.
In tutta questa complessità, i miliardi di specie che sono passate per il pianeta hanno messo in atto ogni genere di strategia competitiva; e quando dico “ogni genere”, intendo veramente una varietà enorme, che quando cominci a studiarla capisci che non c’è niente che sia contro natura, perché in natura c’è veramente di tutto.
Strategie r e strategie K
Una categorizzazione classica delle strategie competitive è il modello della selezione r-K, che descrive due possibili modelli di successo: la strategia r, basata sul potenziale riproduttivo, e la strategia K, basata sulla capacità portante dell’ambiente.
Le specie a strategia r (spesso definite come opportuniste o pioniere) basano la propria competitività su un alto potenziale riproduttivo: fanno tanti figli, la maggior parte dei quali è destinata a non sopravvivere fino all’età adulta, e tendono a riprodursi velocemente fino a saturare la capacità portante dell’ambiente; a questo punto, sono soggette a crolli drastici dovuti al rapido aumento dei tassi di mortalità. In queste specie la competizione intraspecifica (cioè fra individui della stessa specie) è molto alta, e il successo dipende dalla capacità di sfruttare al massimo le risorse disponibili.
Al contrario, le specie a strategia K puntano su elevate capacità di adattamento all’ambiente e uso efficiente delle risorse naturali. Queste specie crescono più lentamente, perché ciascun individuo si riproduce più tardi e fa meno figli; dedicano peraltro più risorse di cura alla prole, e, di conseguenza, la mortalità giovanile è più ridotta. La competizione all’interno della specie è limitata dall’instaurarsi di dinamiche sociali più articolate, ad esempio la territorialità, ed emergono comportamenti sociali e collaborativi. La rete di interazioni più fitta aumenta la stabilità del sistema nel suo complesso, e la numerosità della popolazione non è soggetta a picchi e crolli, ma oscilla intorno a un punto di equilibrio che dipende dalla capacità portante dell’ecosistema.
Le due strategie (si fa per dire, due: c’è un gradiente molto ampio fra i due estremi) hanno maggiore o minor successo in relazione alle caratteristiche dell’ambiente: in situazioni instabili (ad esempio, gli estuari dei fiumi), caratterizzate da ampie oscillazioni delle condizioni ambientali, sono avvantaggiate le specie r; in ecosistemi maturi e più produttivi (ad esempio la foresta equatoriale) sono le specie K a prevalere.
Comportamenti collaborativi, alto livello di interazioni, trasmissione culturale dei comportamenti, alto livello di diversità, sono fenomeni che si manifestano e possono prosperare solo in ambienti del secondo tipo, perché gli ambienti di primo tipo sono intrinsecamente troppo poco stabili per consentire il consolidamento dei rapporti.
Se analizziamo il mercato come un ecosistema, vediamo che anche qui esistono strategie competitive diverse, che hanno successo in contesti diversi. Nelle situazioni instabili prevalgono le strategie “tutto e subito”, che privilegiano quantità, basso investimento individuale, opportunismo e velocità. Man mano che ci si sposta verso situazioni più “mature”, diventa più vantaggioso adottare una strategia K, basata su un uso equilibrato delle risorse in grado di mantenerle nel tempo, e su “pochi progetti ma ben curati”.
A differenza di altre specie, noi esseri umani abbiamo un certo margine di libertà nella scelta degli ambienti in cui muoverci, anche in base al tipo di strategia competitiva che sentiamo più nostra; dobbiamo tenere presente però che, oltre a competere all’interno del nostro ambiente, dovremmo anche lavorare – insieme agli altri attori del nostro ecosistema – per mantenere in salute l’ambiente stesso, evitando che venga scalzato da ecosistemi concorrenti.
Infatti anche gli ecosistemi in un certo senso competono fra loro: le dune tendono ad avanzare sulla spiaggia, e sono incalzate alle spalle dalla macchia mediterranea e dalla pineta; la foresta matura soffre dell’assedio delle piantagioni; il bosco si riappropria gradualmente dei pascoli abbandonati.
Salvaguardare il proprio ecosistema è particolarmente importante per chi adotta una strategia K, dato che gli ambienti ad alto livello di complessità dipendono da condizioni di equilibrio e stabilità, e soffrono in modo anche drammatico di eventi di degrado che rompano questo equilibrio; richiedono quindi una manutenzione costante e amorevole.
Ci piace vivere e operare in una società aperta e tollerante? Non solo dobbiamo far sì che la nostra comunità mantenga questi valori, ma anche capire come, sullo scenario globale, le democrazie possono restare attraenti e competitive rispetto alle autocrazie.
Insomma, buon 25 aprile, che c’è tanto lavoro da fare.