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Gli esercizi da fare ogni giorno
Dove si parla di sentieri, di cose che crescono lentamente, di lavoro quotidiano necessario e poco sexy
Un articolo recente del Post parla dell’estesissima rete di sentieri italiani e di chi ne cura la manutenzione: un lavoro non facile, quasi sempre gratuito, e per il quale gli enti locali faticano sempre più a mettere a disposizione materiali e fondi.
Leggendolo, ripensavo alla camminata che ho fatto domenica scorsa, una podistica organizzata sulle colline sopra Modigliana. La stretta strada per arrivarci era tutta dossi e crepe e, in certi tratti, a senso unico alternato; alla partenza gli organizzatori hanno avvisato che entrambi i percorsi – della gara vera e propria e della non competitiva che avrei fatto io – erano diversi rispetto agli anni passati, perché le frane di maggio hanno interrotto molti sentieri; e ci hanno detto di fare attenzione anche nei passaggi attraverso i campi, perché in molti avremmo trovato delle crepe – ci ha messo lo zampino pure il recente terremoto.
Un paesaggio scorticato dalle frane e dalla siccità, perché all’alluvione di maggio è seguita l’ennesima estate più arida degli ultimi anni; quanta ostinazione ci vuole per continuare ad abitarlo, io non ne sarei capace.
Curare, riparare, mantenere
La qualità delle nostre vite è strettamente legata a quanto, collettivamente, ci prendiamo cura del posto che abitiamo: guardrail robusti, strade senza buche, scuole ben tenute, avvisi e regolamenti aggiornati, raccolta e riciclaggio dei rifiuti, manutenzione degli impianti, pulizia dei luoghi di lavoro, potrei andare avanti all’infinito.
Tutte cose per nulla sexy, che si tende a fare al risparmio, affidandole a chi fa i preventivi più bassi e probabilmente ci sta dentro solo pagando il meno possibile le persone che poi faranno il lavoro; e raramente pensiamo che queste persone stanno facendo una cosa importante, perché le cose importanti sono altre: le grandi opere, l’innovazione, le startup unicorno.
Invece ogni euro che pensiamo di risparmiare sulla manutenzione quotidiana lo pagheremo, prima o poi, con interessi altissimi quando i nodi verranno al pettine.
La cura delle parole
Sto recuperando un po’ alla volta gli interventi tenuti a DiParola Festival che non ero riuscita a seguire dal vivo, e uno dei fil rouge che li percorrono è l’attitudine a rivedere con occhio critico ogni testo che abbiamo scritto per renderlo più utile e usabile da chi lo leggerà.
È un esercizio che richiede empatia, uno sforzo continuo per non dare per scontato ciò che noi sappiamo ma gli altri no, e tempo per le revisioni e le riscritture. Possiamo farci aiutare dall’intelligenza artificiale per accelerare il processo e superare momenti di stallo, ma dovremo comunque verificare e completare il lavoro con la nostra intelligenza umana per verificare che non solo il discorso fili liscio, ma che sia completo e veritiero: i motori linguistici non sono progettati per il fact checking.
Una parte del mio lavoro quotidiano è la revisione delle campagne email che impostano i clienti, e nel farlo misuro ogni giorno quante cose diamo per scontate, quanto spesso mettiamo il nostro ego in prima fila invece che partire dai nostri interlocutori. Sono anche consapevole che mi riesce bene farlo sui testi degli altri, ma farlo su di sé è molto più difficile.
Il tempo che ci vuole
Tutto questo lavoro richiede tempo e pazienza. Ho molto apprezzato i primi due episodi di un podcast del Post dedicato a raccontare come si fa il giornale, il Post appunto: sono quelli in cui il direttore Luca Sofri racconta la storia del progetto e la vicedirettrice Elena Zacchetti parla dell’organizzazione del lavoro in redazione.
Mi ha fatto sorridere che Luca Sofri dica di sé una cosa tipo io non sono un imprenditore, perciò con il Post ci siamo sempre presi solo dei rischi che ci sembravano ragionevoli, e questo ha fatto sì che siamo cresciuti lentamente; ecco, in questa cosa di non fare il passo più lungo della gamba, di voler contare sulle proprie risorse senza spingere pericolosamente sul pedale dell’acceleratore, del sentire la responsabilità di poter pagare uno stipendio a chi lavora con te, mi ci sono ritrovata molto, probabilmente nemmeno io sono o sarò mai una vera imprenditrice.
Comunque, mettendoci il tempo che ci voleva, il Post ha saputo costruire un progetto fedele all’obiettivo di fare le cose per bene, dimostrando che è possibile un giornalismo non basato sul click baiting; per questo io e molte altre persone siamo felici che ci sia e felici di sostenerlo abbonandoci.
Nel racconto di Elena Zacchetti invece ho ritrovato la consapevolezza di quanto sia complesso fare sì che un progetto che cresce sappia conservare i propri valori fondativi (nel caso del Post, una certa idea di giornalismo) e al tempo stesso cambiare le proprie modalità organizzative in modo funzionale. È un tema di cui discutiamo spesso io e Marco pensando allo sviluppo di Palabra; io tendo a evitare di complicare troppo i processi interni con elementi non necessari in un piccolo gruppo, lui cerca di immaginare come funzioneranno le cose quando saremo di più, e in tutto questo cerchiamo un punto di equilibrio giusto per l’oggi, e che domani rimetteremo in discussione.
Altri pensieri intorno al Post
Due settimane fa ho passato l’intero weekend a Faenza per Talk, tre giornate di conversazioni sul palco e fuori dal palco. Al di là dei contenuti davvero stimolanti, una cosa che ho apprezzato moltissimo è stata la modalità monotasking dell’evento: un solo palco, un solo talk alla volta da seguire, ho passato tre giorni ad ascoltare davvero, anche quando avevo voglia di sgranchirmi le gambe e facevo due passi. Quando ci sono contemporaneamente tante cose su palchi diversi, io passo tutto il tempo basculando fra un palco e l’altro, senza mai riuscire a seguire davvero un talk dall’inizio alla fine, e torno a casa con la sensazione di essermi persa le cose migliori e aver sprecato un sacco di tempo.
Quest’anno invece da Talk sono tornata sentendomi bene, con molti pensieri, forse non tutti nuovi ma comunque interessanti; ecco, forse l’unico rammarico è la sensazione di far parte di una bolla, e che la nostra società si stia frantumando in cerchie non comunicanti fra loro.
Girando per Faenza, le persone venute per Talk le potevo riconoscere a vista d’occhio anche prima di vedere il bracciale di ingresso al polso o lo shopper di Indagini, più o meno come quando al Villaggio del Sole capisco subito se una persona è lì per il Freelancecamp o per le vacanze. Fare parte di una tribù è rassicurante, tranne quando ti accorgi che altre tribù brucerebbero volentieri il tuo villaggio.