Fra un disastro e l'altro
Cercando il sentiero, che la direzione giusta la conosciamo: è in salita ma bisogna andare
Se mi chiedi come sto, ne riparliamo il 6 novembre, così nel conto metto anche l’esito delle elezioni americane. Mi fanno ancora male le cicatrici del 2016, ma stavolta è anche peggio perché so cosa potrebbe arrivare, e so anche che la finestra per agire su un sacco di fronti si restringe sempre più in fretta.
Una parte di me pensa che Harris ce la farà, che moltissime donne e giovanissimi stanno andando a votare e che molte persone registrate come elettori repubblicani stanno votando democratico; l’altra parte ricorda che sottovalutare la stupidità e l’irrazionalità e la disinformazione è una scommessa imprudente. Se avessi un dio da pregare, lo farei.
Intanto i disastri si succedono senza tregua. Alluvioni devastanti, stragi a Gaza e in Libano, autocrati che vincono elezioni truccate, propaganda governativa sulla pelle dei più disgraziati: c’è da fare un lavoro enorme, io a volte non so se ho la lucidità per farlo nel modo giusto.
Mi pesa la rabbia. Sono più di quarant’anni che leggo analisi e previsioni scientifiche che descrivono esattamente il futuro che ci stavamo preparando, e adesso le conseguenze sono qui, un cigno grigio largamente prevedibile anche in assenza di precedenti storici. La dura realtà la descrive bene un articolo del Guardian che ho appena letto: la crisi climatica diventa sempre più grave e l’industria petrolifera ci sta uccidendo.
In tutto questo, la spudorataggine del capitalismo non ha freni. Eric Schmidt, ex CEO di Google, a una conferenza sull’AI ha dichiarato che non raggiungeremo comunque gli obiettivi climatici, quindi tanto vale andare avanti con l’intelligenza artificiale, che è mostruosamente energivora, esonerandola da qualunque vincolo nella speranza che alla fine sia un algoritmo a trovare le soluzioni che ci servono. Io quando l’ho letto mi sarei fatta esplodere, per fortuna c’è chi ha più pazienza di me e riesce a mettere in fila, per la millesima volta, le cose da dire:
Noi abbiamo già le soluzioni. E continuano a migliorare, nel senso che sono progettate meglio, sono più efficienti, più economiche. Dobbiamo solo metterle in pratica, ma queste soluzioni non piacciono a molte persone ricche e potenti. Proporre una strategia inesistente è diventata una scusa per non dare sostegno a quelle che ci sono. […]
Ci si potrebbe aspettare che Schmidt, con un patrimonio di circa 23 miliardi di dollari (circa 21 milioni di euro), fosse disposto a dedicare una parte del suo tempo e delle sue risorse a far raggiungere gli obiettivi climatici, invece di giustificare l’inerzia con il suo sprezzante disfattismo.
Ma in generale i miliardari sono parte del problema, con il loro potere smisurato e il pessimo uso che la maggior parte di loro ne fa. E il loro impatto sul clima è osceno: l’1 per cento più ricco dell’umanità è responsabile di più emissioni di carbonio del 66 per cento più povero. […]
Ho il sospetto, però, che per gli oligarchi della tecnologia la semplicità di queste soluzioni – basate sul fatto che dovremmo ridurre i nostri consumi, in modo da poter produrre meno e realizzare la transizione energetica verso un mondo alimentato da fonti rinnovabili – non rappresenta il genere di fantascienza spettacolare che li entusiasma. Eppure le tecnologie solari ed eoliche sono piuttosto sorprendenti, soprattutto pensando a quanto sono migliorati velocemente gli impianti e a come sono crollati i costi. Si tratta per molti versi di una soluzione sociale, non di una grande invenzione centralizzata super-redditizia per pochi.
[Rebecca Solnit, qui l’articolo originale sul Guardian, qui la versione tradotta su Internazionale]
Ridurre i consumi, ridefinire il prezzo delle cose basandolo sul valore d’uso reale e non su quello dei bisogni indotti, pagare meglio chi fa un lavoro di cura – che sia cura delle persone o del territorio, ci servono entrambe – e meno chi fa lavori del c. – ho il sospetto che questo mi riguardi, in qualche modo dovrò sdebitarmi col pianeta visto che sono troppo vecchia per cambiare mestiere. Cercare il più possibile soluzioni distribuite, che non accentrino il controllo nelle mani di pochi ma che generino autonomia e autodeterminazione: nessuna di loro sarà la pallottola d’argento, ma tutte insieme possono riportarci su una traiettoria non suicida.
Intanto ho quasi smesso di mangiare carne, faccio l’inventario delle cose di cui liberarmi senza comprarne altre, mi concedo quasi solo dei libri. Ho letto una graphic novel che avevo in lista da un po’, Ducks di Kate Beaton, meravigliosa: il racconto di due anni dell’autrice che, per ripagare il suo debito universitario, va a lavorare nei giacimenti dell’Ovest del Canada in cui si estrae il petrolio dalle sabbie bituminose.
Dentro c’è un mondo: la povertà giovanile e non solo, la distruzione dell’ambiente, il furto delle terre ai nativi, la tossicità degli ambienti in cui ci sono molti più uomini che donne e l’abuso, verbale e fisico, diventa la norma; tutto il peso del capitalismo e del patriarcato, una notte attraverso cui passare per cercare di uscirne e cambiare qualcosa in meglio.
Appena posso vado a camminare in foresta, perché in queste settimane l’Appennino è di una bellezza struggente.
Ci sono sempre più persone a camminare, in piccoli gruppi o comitive al seguito di guide ambientali, e la prendo come una buona notizia. A Poggio La Lastra ci fermiamo al chioschetto dei ragazzi che hanno preso anche in gestione il rifugio di Trappisa di sotto, è sempre un piacere dopo la camminata fermarsi a fare due chiacchiere con loro.
Penso che devo alla montagna più di quanto so restituirle, io che non ci vivrei mai: sono una cittadina, vorrei tenere insieme tutto, un modo lo troverò, lo dobbiamo trovare.
Per l’Internazionale: 23 miliardi di dollari sono, ovviamente, circa 21 miliardi di euro, non milioni. Comunque non tutte le notizie dalla Silicon Valley sono così disastrose. John Doerr, uno dei leggendari VC della Valley, ha disposto nei confronti di Stanford la donazione più elevata che l’università abbia mai ricevuto (1,1 miliardi di dollari) per avviare la Stanford Doerr School of Sustainability, la prima nuova facoltà da 70 anni a questa parte.