Il cadavere di Giulia Cecchettin è stato ritrovato vicino al lago di Barcis, e io sto urlando perché mi sembra inconcepibile che sia successo un’altra volta.
E ancor di più mi sembra inconcepibile che oggi, 2023, ancora ci siano ventenni che considerano normale pretendere il controllo, che sia sulla vita di una fidanzata o di un’ex: ancora, oggi, qui?
Come sono cresciuta femminista
Sono nata a metà degli anni ‘60; i miei lavoravano tutti e due in fabbrica, dove si erano conosciuti, e io sono arrivata a distanza di cinque anni dal matrimonio, quando ormai non pensavano più di poter fare figli – mia madre aveva fatto mille controlli, perché, raccontava, a quei tempi nessuno ipotizzava che la causa di un’infertilità fosse da cercare dalla parte dell’uomo.
Insomma, alla fine sono nata – la storia del primo parto di mia madre finirebbe in un manuale sulla violenza ostetrica – figlia desideratissima e amata, e dopo pochi mesi mia madre ha lasciato il lavoro perché voleva stare con me.
Negli anni successivi se ne sarebbe più volte rammaricata, tanto che, se mi chiedete qual è la frase-mantra della mia infanzia e adolescenza che mi ha segnata più a fondo, non ho dubbi: “non farti mai mantenere da nessuno”, ripetuto fino alla nausea nonostante io non avessi mai espresso propositi del genere.
Mio padre, me ne sono resa conto negli anni, era un uomo più avanti della sua generazione. Mentre i suoi coetanei consideravano “roba da femmine” badare ai figli piccoli, lui mi portava in giro, orgoglioso della sua bambina, e mai per un attimo mi ha mai fatto pensare che sarebbe stato più felice di avere un figlio maschio.
Non l’ho mai visto sminuire mia madre, parlarle sopra, umiliarla; se c’erano discussioni, ciascuno dei due aveva lo stesso titolo per parlare, e mai mio padre ha agitato il bastone del capofamiglia. Né con me né con mia sorella ha fatto discorsi che facessero intendere che era geloso di noi, o che pensava di dover essere lui a consegnarci ai nostri futuri fidanzati o sposi; mi sono sempre pensata mia, non una proprietà che mio padre avrebbe ceduto a un altro uomo.
Aveva molto sofferto di non poter studiare, e il fatto che io fossi tanto brava a scuola lo rendeva felice, li rendeva fieri e felici entrambi. Quando c’era la distribuzione dei regali della Befana, al dopolavoro, per sua intercessione mi era concesso di scegliere il regalo fra quelli destinati ai maschi; così, invece di dovermi accontentare di una casa di bambola, conquistai un anno un microscopio e l’anno dopo Il Piccolo Chimico, il che forse spiega perché non ho avuto mai paura delle STEM.
Alcune prof carismatiche, l’esperienza scout col suo insistere su autonomia, esplorazione e responsabilità, la lettura precoce di Elena Gianini Belotti, l’essere costantemente e senza particolare sforzo la prima della classe, mi hanno fatta crescere dando per scontato che avrei studiato, lavorato, viaggiato, fatto qualcosa nella vita, a prescindere dallo sposarmi o fare figli.
Non che fossi risolta e tutta d’un pezzo, sia chiaro: dopo la fine della storia col mio morosino storico dell’adolescenza, ho passato anni a soffrire della mia singleness, sempre sentendomi monca di una validazione sociale che mi sarebbe arrivata solo con un ragazzo o un uomo al mio fianco. Per colpa di questo bisogno maledetto [cit.] mi sono messa in situazioni e storie che oggi, a ripensarci, mi prenderei a sberle, ma me ne sono sempre tirata fuori comunque, senza mai dare il permesso a nessuno di dirmi cosa fare o cosa non fare. Un paio di volte ho intuito l’inizio di tentativi di controllo e violenza psicologica, e ho subito girato i tacchi per scappare a gambe levate, incurante di fare la figura della stronza: meglio star male da sola che farmi comandare.
Molestie e dintorni
Not all men, certo; ma sicuramente ogni donna ha le sue storie di molestie da raccontare, e io non faccio eccezione. La prima volta è stato in terza media, mentre aspettavamo il nostro turno agli orali, quando un gruppo di maschi della mia e di altre terze mi hanno circondata in un angolo iniziando a spintonarmi e toccarmi; li ho cacciati via, senza nemmeno capire bene cosa stava succedendo, e morta lì.
Più grave è stato al quarto anno di università, quando il prof di ecologia, durante un’uscita di campionamenti alla Sacca di Goro, la sera mezzo ubriaco mi ha incantonata cercando di baciarmi; avevo già sentito pettegolezzi su questa sua abitudine e quasi mi sono rimproverata di non essere stata più attenta, ma l’ho respinto, sia la prima che la seconda volta che ci ha provato, e nelle settimane successive sono tornata fintamente spavalda in aula. Dentro ribollivo di paura e vergogna, ma all’esame ci sono andata, e lui non ha avuto il coraggio di negarmi la lode.
I fischi per la strada, i tentativi di abbordaggio quando viaggiavo da sola, i colleghi che chiamavano me e le altre per nome e i maschi per cognome o titolo; a volte me li sono fatti scivolare sopra, più spesso li ho ribattuti a muso duro, guadagnandomi la fama di rompicoglioni.
Il punto è che le molestie e il prendersi delle confidenze sono una performance di mascolinità, un manifesto che vuole dimostrare a chi le fa e a chi le subisce che il primo ha potere sulla vita dell’altra, non fosse che di farla sentire insicura o sminuita; io non mi sono mai sentita totalmente senza potere, perciò non è facile mettermi sotto, ma il problema non è educare le donne a reagire, quanto piuttosto demolire quest’idea tossica di mascolinità che è pericolosa per tutti, uomini e donne e società.
Una famiglia normale, secondo me
Non penso che avrei potuto sposare una persona che pretendeva di limitare o condizionare i miei progetti. Non penso nemmeno che un uomo con pretese di controllo avrebbe mai potuto sposare me, peraltro.
A casa nostra tutti facciamo più o meno tutto ciò che non abbiamo delegato alla signora delle pulizie: spesa, lavatrici, cucinare, mettere i piatti in lavastoviglie; non è che mio marito mi aiuti, è che viviamo nella stessa casa, perciò ci organizziamo per farla andare avanti insieme.
Io sono sempre stata quella che stava meno a casa: viaggio per lavoro e per piacere, perché mi piace viaggiare più che a mio marito. Quando Guido era piccolo, so benissimo che a casa dei miei suoceri si compativa ad alta voce il povero bambino trascurato dalla mamma, ma alla fine il bambino è cresciuto apprezzando i vantaggi di avere una madre che gli ha fatto conoscere un sacco di luoghi e persone e che per i 18 anni gli ha regalato il passaporto.
Non si può mai dire cosa faranno i figli, ma al momento mi sembra di consegnare al mondo un giovane maschio decente, consapevole dei suoi privilegi e della responsabilità che si porta addosso; uno che va coi suoi amici a vedere Barbie e si divertono moltissimo, uno che non credo pretenderà di controllare il telefono della sua morosa. In ogni caso, ci lavoriamo, sia cercando di dare un esempio decente, sia parlandone, che non si deve dare niente per scontato.
Perché racconto i fatti miei?
Perché esiste una strada possibile per provarci, a crescere uomini e donne che si sentano uguali.
Perché se era possibile più di cinquant’anni fa, è tanto più possibile oggi, ed è inconcepibile che si giustifichino ancora la gelosia, il possesso, il controllo, il doppio standard, che i giornali continuino a raccontare queste storie come fossero amore malato, quando l’amore non c’entra un cazzo, c’entra solo la malsana idea che sia nella logica “normale” delle cose questa idea del rapporto fra i sessi.
Perché queste strade, imperfette e parziali, bisogna raccontarle, donne e uomini, perché è una cultura che va rovesciata da cima a fondo, non sono “mostri” o “malati”, sono la conseguenza estrema di tante premesse da smontare, una per una.
Forse serve solo a me, ma oggi non riesco a stare zitta. Sono più di cinquant’anni che non sto zitta, ma fatevene una ragione, mi hanno cresciuta così.
MAI ZITTE!
E per fortuna che non si sta zitte!