Dare, dare, conversare
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Premessa e credits: ciò di cui scrivo oggi gira intorno a una serie di idee contenute nel numero #351 di TMAI, la newsletter di Avinash Kaushik.
TMAI (The Marketing < > Analytics Intersect) esce 10 volte l’anno in edizione gratuita, più altri 40 numeri per gli abbonati; io, con tutto l’amore per Avinash Kaushik che è l’unica persona che sento di poter chiamare guru senza mettermi a ridere, non mi sono mai abbonata alla versione Premium, perché sono in una fase di grande fatica nel leggere di cose di analytics.
Il #351 di TMAI fa parte delle uscite Premium, ma Miriam Bertoli, che è più brava e studiosa di me, me l’ha girato perché abbiamo in programma di ritrovarci di nuovo, come facemmo tre anni fa, a ragionare insieme delle rispettive content strategy.
Credo tanto nel potenziale delle email che ho fondato un’agenzia che fa solo quelle.
L’email è un contesto in cui governiamo tempi, contenuti, formati; è a tutti gli effetti un owned media, che in più offre l’opportunità di raccogliere dati di prima parte e zero party data, preziosissimi ora che il tempo dei cookie di terze parti volge al tramonto.
Però devi farlo bene
Autoreferenzialità, scarsità di contenuti originali e di tempo/energie/passione fanno sì che tante email siano di fatto pagine di catalogo strappate e infilate in una busta: una collezione di foto con sotto il pulsante ACQUISTA. Ma quanto spesso, realisticamente, possiamo comprare?
O, se si tratta di B2B o wannabe thought leader, riceviamo newsletter che sono collezioni di link da approfondire – Avinash le chiama link-o-rama. Ma noi avevamo chiesto di leggere una newsletter, mica di accollarci dell’altro lavoro da fare: così, il risultato incrementale di questo tipo di newsletter tende a zero, e se salta un numero nessuna delle persone iscritte se ne lamenterà, anzi.
La formula difficile, ma che funziona
L’alternativa che Avinash Kaushik propone per non cadere nel link-o-rama è tutta basata sull’offrire valore a chi legge. Sarò sbruffona e citerò me stessa che insisto mettendoci nelle scarpe altrui: beh, Avinash dice esattamente la stessa cosa quando sottolinea che una mail deve soddisfare tre condizioni:
non deve essere obbligatorio cliccare su un link perché sia utile;
devono esserci storie originali e interessanti;
dobbiamo offrire il meglio di noi.
La formula che lui suggerisce è fatta di tre ingredienti: give, give, chat, che possiamo tradurre facilmente in dare, dare, conversare.
Dare: innanzitutto, la storia della settimana (o del mese, o del giorno), una storia che parte da un problema e offre indicazioni concrete per affrontarlo e, possibilmente, risolverlo.
Dare: un tema importante per chi ci legge. Questa parte può anche contenere un link, meglio se non a qualcosa che abbiamo scritto noi, ma ciò che non può mancare è un nostro punto di vista per far progredire la discussione, non per lamentarci o spaventare.
Conversare: un invito sincero a contribuire, condividere, rispondere. L’email non è parlare a, ma parlare con; per questo io detesto i messaggi spediti dagli indirizzi noreply@, e cerco sempre, anche coi clienti più aziendali, di infondere un po’ di elemento umano nei messaggi. Citerò Gianluca Diegoli:
“Le automazioni convivono benissimo con l’autenticità. Meglio un’automazione scritta in plain-italiano che una mail in burocratese scritta a mano. Le persone non vogliono sapere chi ha scritto, solo che ciò che è scritto (per sintetizzare) sia sincero.”
Io non lo so se ce la faccio sempre
Trovare ogni settimana una bella storia nuova è impegnativo, ne parla anche l’ottimo Valerio Bassan che di newsletter se ne intende quando, intervistato dal podcast Hacking Creativity, smonta un po’ dell’enfasi “newsletter come ricetta sicura e facile per il successo” e spiega quanto lavoro c’è dietro Ellissi e perché la sua newsletter è diventata quindicinale.
Io non ho sempre una storia che posso raccontare: il tema della settimana può essere, come oggi, una riflessione che nasce da qualcosa che ho letto o visto; ma deve avermi mosso dei pensieri un po’ più strutturati del semplice mi piace / non sono d’accordo.
E rimanere dentro al perimetro di quel che faccio per lavoro mi sta stretto: questa non è solo una newsletter sull’email marketing, anzi certe settimane non lo è per niente, anche se poi nel modo in cui faccio email marketing ci rientra tutto il resto.
AI, cosa potrà mai andare storto?
Domenica scorsa Luca Sofri ha aperto la sua newsletter sul futuro dei giornali citando un articolo del Guardian a firma di Emily Bell, direttrice del Tow Center for Digital Journalism della Columbia University.
“Bell ha posto il problema dei rischi di affidabilità per il giornalismo - e per le nostre comunità di conseguenza - in termini meno vaghi di come viene fatto spesso: «il problema è che per le intelligenze artificiali la verità non è una priorità». Il loro uso produrrà una mole enorme di contenuti che saranno più che falsi, saranno autonomi dalla realtà e dalla verità come criteri di scelta. E se queste ipotesi sui rischi sembrano vaghe e inutilmente terroristiche, pensate alla leggerezza e all'eccitazione con cui vennero accolte a suo tempo le rivoluzioni dei social network, e a quanto ci abbiamo messo a registrarne una grande quota di controindicazioni ed effetti problematici, capaci di cambiare le convivenze.”
Nel frattempo io sono stata ammessa alla beta del nuovo Bing, AI-powered search engine, e ho cominciato a fare a Sidney delle domande facili su un tema che conosco bene: me stessa.
La partenza è facile, del resto per rispondere basta rielaborare la home del mio sito o del profilo LinkedIn.
Quando però chiedo a Sidney-Bing che libri ho scritto, inizia la parte divertente, quella in cui si mescolano risposte giuste a notizie inventate, nonostante i link a supporto diano tutte le informazioni corrette.
Obietto e le rispondo sicura che “Scrivere per il web 2.0”, “Fare business con Facebook” e “Web content management” siano stati scritti da Alessandra Farabegoli?
Mi spazientisco un po’ e Sidney inizia a mettere il broncio, anche se nella sua magnanimità mi concederebbe di perdonarmi se ammetto che sono io a sbagliare.
Sidney, mi vuoi prendere in giro? Stavolta butto giù l’asso di bastoni.
A questo punto, la conversazione si chiude con una precipitosa fuga.
Ho ripetuto l’esperimento più volte, anche interrogando Bing su altri nomi – tutte informazioni comunque facilmente reperibili leggendo i link che il motore stesso mi riporta: il risultato suona sempre come l’interrogazione di uno studente molto chiacchierone che si riempie la bocca di concetti a caso. A un orecchio distratto può sembrare un discorso che fila, ma non regge a nessun fact-checking, come la conferenza stampa di <politicə cialtrone a caso>.
Poi è vero che, come annota Luca Sofri, il punto non è tanto la tecnologia, quanto i comportamenti umani che questa replica e incentiva – il Luminol di cui scrive Mafe de Baggis – e proprio per questo è così importante interrogarci, valutare le conseguenze, mettere in discussione le premesse.
Io non so se ce la faccio sempre, ma ci provo
Anzi, proviamoci.
Alessandra
alessandrafarabegoli.it
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