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Generatori di domande difficili
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Ho continuato per tutta la settimana a rimuginare sulla questione AI di cui avevo già scritto .
*|IF:EMAIL=l.carrada@mestierediscrivere.com|*Tuo fratello Giovanni (grazie per avergli girato la mia newsletter ❤️) *|ELSE:|*Giovanni Carrada, a cui la sorella Luisa aveva girato la mia newsletter (grazie Luisa ❤️) per la recensione della mostra bolognese da lui curata, *|END:IF|*mi ha scritto dicendosi colpito dal mio pessimismo:
Capisco il sentimento che provi, perché è una reazione comunissima all’innovazione, ma in questo caso non la condivido. Perché ti dovrebbe turbare la prospettiva di una tecnologia che aiuta a ridimensionare un problema molto sentito?
Da che mondo è mondo, darci una mano è quello che ogni tecnologia ha sempre fatto: aumentare come una protesi le nostre capacità, magari anche quelle del nostro cervello. Certo, all’inizio si creano delle disuguaglianze fra chi l’innovazione la possiede (o la sa usare) e chi no, ma poi la tecnologia diventa sempre più accessibile, ormai anzi molto velocemente. Anche la scrittura – altra protesi del cervello – ha creato delle disuguaglianze nel corso della storia – e che disuguaglianze! – ma la soluzione è stata mandare tutti a scuola, non smettere di usarla e tornare all’oralità.
L’altra cosa che ho pensato è che anche l’uso di questi strumenti potrebbe aumentare ulteriormente il valore del lavoro davvero originale, quello che nasce dalle misteriosi ricombinazioni di idee che avvengono nel nostro inconscio quando queste idee ce le abbiamo saldamente nella testa, e non quando sono immagazzinate in un deposito di note digitale.
Insomma, questi strumenti saranno utilissimi e daranno un vantaggio competitivo a chi avrà comunque fatto il duro lavoro del leggere e raccogliere le note, ma quella che ne viene fuori potrebbe comunque rivelarsi solo una creatività di serie B, per così dire. Perché le logiche alla base del recupero delle note saranno quelle di un algoritmo, e non quelle – misteriose appunto – dell’inconscio dalle quali è sempre scaturita la creatività umana.
Se invece non noteremo alcun vantaggio competitivo fra algoritmo e inconscio, vuol dire che avremmo scoperto l’algoritmo dell’inconscio. Ma la vedo dura.
Ora, io tendenzialmente sono curiosa e ottimista rispetto alle innovazioni – le leggi di Douglas Adams sul progresso tecnologico sono da tempo fra le mie citazioni favorite – però qui mi faccio molte domande, e vorrei che ce ne facessimo tutti di più invece di cavarcela con battute argute sulla traccia di “se una macchina ti ruba il lavoro, il problema non è la macchina, sei tu” (non è il punto di Giovanni Carrada, sia chiaro, ma ne avrai lette anche tu di frasi del genere in giro).
Chi controlla e valida le risposte generate dall'AI?
Via via che aumenta la complessità delle elaborazioni e la quantità / qualità dei materiali di input, diventa più facile affidarsi all’AI come a un oracolo di cui non mettiamo in discussione i responsi – anche perché, con chi potremmo contestarli? Nota giustamente Gianluca Diegoli:
Buona parte delle attività esterne di marketing serve per dare la colpa a qualcun altro, ma dare la colpa alle macchine non è la stessa cosa. Immaginate un marketing manager che dice che la colpa della campagna sbagliata è di CampaignGPT (non esiste, ma esisterà, già CDP, Google, Meta, il programmatic la usano abbondantemente sotto il cofano). La CEO lo guarda e dice: «Le macchine non sbagliano, è colpa tua!». Ora invece, immaginatelo dire: «Purtroppo l’agenzia ha sbagliato la creatività». «Ah be’ cambiamola».
Peraltro il corpus di fonti date in input ai sistemi di AI è spesso opaco, il che rende praticamente impossibile valutare in che misura la selezione in ingresso abbia sofferto di pregiudizi, uniformità e conformismo di chi ha programmato e nutrito il sistema. Un punto di vista particolarmente scettico e che pone molti problemi in questo articolo di Iris Van Roij, docente olandese di Computational Cognitive Science.
Quanto lavoro umano c’è dentro? E quanto viene pagato?
Un altro grande punto interrogativo è la quantità di lavoro umano che sta dietro all’automazione: l’AI non si nutre da sola, ma usa schiere di esseri umani per tutti i compiti di basso livello che implicano il classificare, etichettare, verificare input e output dei sistemi. Sono lavoratori-ombra, spesso stressati e sfruttati come quelli che moderano i contenuti sui social, e nel racconto ufficiale dell’AI spariscono totalmente dalla scena.
Poi c’è il lavoro di chi ha creato i contenuti stessi: un corpus gigantesco di conoscenza collettiva fatta di studi, racconti, articoli, testi, foto, immagini, che diventano combustibile per le elaborazioni dell’AI. Chi dà garanzie che non si tratti di materiali protetti da copyright? E se si tratta di contenuti di pubblico dominio o in licenza Creative Commons, non dovrebbero essere di pubblico dominio anche i benefici derivanti dal loro uso?
Come useremo tutta questa abbondanza?
Non c’è dubbio che l’incremento di produttività possibile grazie all’AI sia enorme; questo sarebbe una buona notizia se, contemporaneamente, decidessimo di dedicare tutto il tempo e le risorse risparmiate, nonché buona parte della ricchezza prodotta, a consentire a più persone possibile di vivere vite dignitose e gratificanti.
Invece, se un tempo pensavamo che le macchine ci avrebbero risparmiato soprattutto i lavori faticosi, ripetitivi, rischiosi, in questo scorcio di secolo a me sembra che i compiti rimasti in carico agli esseri umani saranno gli umili lavori di cura: pulire, cucinare, assistere malati e anziani (e parlo di pulire culi, non di curare: perché le diagnosi le farà l’AI, così come la definizione dei protocolli terapeutici). Non è esattamente uno scenario rassicurante, e mi sembra il momento di mettere in discussione seriamente le regole del gioco.
Anche perché, nel frattempo, resta sempre lì il piccolo problema che stiamo correndo velocemente verso la catastrofe climatica: lascio la stessa immagine della settimana scorsa, perché qui stiamo.

Fare cose antieconomiche per sfuggire alla macchina
Se Gianluca, per andare controcorrente, si è iscritto a un corso di scrittura narrativa, io consumo matite e colori disegnando, un’altra cosa assolutamente superflua e senza alcun ritorno di crescita professionale, economica, reputazionale.
Ecco, un po’ di tutta questa ricchezza dovremmo usarla per regalare a chiunque spazi di superfluo, la possibilità di uscire dalla ruota del criceto, perfino di dire “io smetto, la vita è anche altro”, come ha fatto Jacinda Arden – tantissimo amore per lei. Sulle sue dimissioni, due riflessioni che, quando le ho lette, ho pensato “vorrei averle scritte io”; la prima è nella newsletter di Dino Amenduni:
Ci sono due elementi dirompenti in quello che è accaduto.
Il primo è che Jacinda (la chiamo solo per nome perché il suo popolo la chiama solo per nome, che peraltro è bellissimo. Ma d'ora in poi la chiamerò Ardern perché troppo spesso le leader donne vengono chiamate solo per nome per sminuirne il ruolo) ha semplicemente ribadito quello che da sempre si dice della politica: è un ruolo di servizio, che si svolge per un certo periodo circoscritto della propria vita. Poi si fa altro.
Il secondo è che Ardern non ha cercato scuse. Ha detto la verità, plain and simple. Sono stanca e so che nemmeno tutto il riposo del mondo riuscirà a ristorarmi; la vita di una persona non può coincidere solo con la propria attività professionale, anche se quest'ultima corrisponde con l'incarnazione del ruolo più alto che puoi ricoprire all'interno di una nazione.
La seconda *|IF:EMAIL=l.sofri@tiscali.it|*l’hai scritta tu *|ELSE:|*l’ha scritta Luca Sofri *|END:IF|*su Twitter:


Nel frattempo, anche lavoro
Nelle ultime settimane dalle parti di Mailchimp sono uscite un sacco di novità, molte interessanti – su automazioni, gestione delle campagne, nuovo editor – altre un po’ meno entusiasmanti – tipo nuovi aumenti di listino. Sto pensando di organizzare un webinar gratuito per parlarne; se lo faccio, tu pensi di partecipare?
*|SURVEY: Sì, anzi non vedo l’ora, quando lo organizzi?|*
*|SURVEY: No, non uso Mailchimp e non mi interessa|*
Adesso vado a disegnare un po’, ciao
Alessandra
alessandrafarabegoli.it
palabra.email
digitalupdate.it




*|IF:ARCHIVE_PAGE|*Hai *|ELSEIF:FNAME|**|TITLE:FNAME|*, hai *|ELSE:|*Hai *|END:IF|*letto anche questa newsletter fino alla fine, grazie! Se la vuoi condividere, qui trovi la versione web. Se te l'hanno inoltrata e vuoi iscriverti, puoi farlo da qui. Se vuoi ringraziarmi in qualche modo, puoi fare una donazione, anche piccola, a CEFARH
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smetti di scrivermi – voglio aggiornare i miei dati
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